È di poche settimane fa l'uscita in libreria de La ragazza dagli occhi d'oro (Adelphi, pagg. 400, euro 25) di Pietro Citati, il grande letterato che ci ha lasciati nello scorso luglio. Il libro, che raccoglie un gran numero di articoli di diversa natura e ampiezza, non è tuttavia opera postuma. L'assenza di date e indici dei nomi e delle ricorrenze, vale a dire di qualsiasi corredo scientifico o commemorativo, ci dice chiaramente che questo è un libro voluto e progettato dallo stesso autore, scandito in otto sezioni che definiscono non altrettanti argomenti ben distinti ma piuttosto una sorta di imbastitura memoriale ed emotiva.
È il Citati che preferisco, non quello delle monografie (pur pregevoli) ma quello che passa attraverso i millenni, inseguendo e amando con la stessa curiosità l'opera di Ildegarda di Bingen o la poesia Sufi e l'esordio di un nuovo poeta, o la voce fresca di un giovane sconosciuto.
Siamo in tanti, tantissimi ad essere in debito con lui, il sottoscritto per primo. Fu un incontro con Citati, in occasione dell'uscita del suo volume su Kafka, ad aprirmi le porte della grande editoria, e le parole scritte da lui sul mio conto rimangono, indelebili.
È un onore essere stati guardati da occhi come i suoi, presi in esame da una mente poco interessata ai tempi e ai luoghi e alle ideologie, capace di vedere l'antico nel presente e il presente nell'antico, che leggeva i miei poveri dattiloscritti - e quelli di tanti altri come me - allo stesso modo in cui leggeva Omero o Goethe. Occhi che, ahimé, si sono spenti qualche mese fa lasciando qualche imitatore forse, ma nessun erede.
La ragazza dagli occhi d'oro - da uno scritto dedicato al terribile racconto balzachiano - ci trasporta attraverso mille paesaggi culturali, religiosi e antropologici alla ricerca di quel denominatore comune che Musil chiamò il senso della possibilità, senza il quale la realtà stessa non esisterebbe.
Le tecniche di approccio variano di scritto in scritto, perché per dire la stessa cosa è necessario moltiplicare i metodi. Abbiamo i ritratti rapidi e incisivi, come quelli di Seneca, Byron, Groucho Marx; ricostruzioni di atmosfere, come nei casi di Giovanna d'Arco, Plinio il Giovane, Wilkie Collins; incursioni nel mondo dell'arte, da Bosch a Leonardo, da El Greco a Friedrich; e - i miei preferiti - gli affreschi drammatici e per nulla geometrici, come quelli dedicati a Pascal o alla morte di Mozart, dove il racconto citatiano si fa talvolta visione gotica, incubo.
Difficile definire Pietro Citati con una parola come «critico», «scrittore» o altro. Dotato di un'intelligenza critica senza paragoni, Citati esercitò questa dote quasi più nei rapporti personali, nel determinare destini individuali - come quello che fece di me uno scrittore - che nelle sue opere, dove il demone critico non scompare, questo no, ma rimane dietro le quinte del racconto, come un suggeritore discreto e deciso a non mostrare il proprio volto sul proscenio del testo.
Se, dunque, «critico» è definizione inadeguata, è allora il caso di ricorrere a un termine ancora più pomposo, come «scrittore»? Che Citati sapesse cos'è uno scrittore assai meglio di quasi tutti gli scrittori a lui vicini (e anche a molti lontani), non c'è da dubitare. Ma se uno scrittore è definito da uno stile, allora non esiste scrittura più lontana della sua dall'implacabilità dello stile. Le sviste, le ineleganze, le imprecisioni sono frequenti, ma sono anche inevitabili in uno spirito come il suo che vive di prime stesure, che apprezza e pratica ma non ama le revisioni, i ripensamenti, le correzioni.
Lo stile nasce da una disperata fedeltà a sé stessi: Citati non era fedele a sé stesso, mai, ma alla Letteratura. Lo stile si sorveglia sempre, anche quando si vuole automatico: Citati era un cacciatore di stili, e come un cacciatore lasciava che fosse la preda (l'opera, lo stile) a decidere il suo percorso. E come il cacciatore deve imparare a pensare come la quaglia, o il fagiano, o il cinghiale, così la sua scrittura si macchia di tutti i caratteri dell'oggetto che tratta: mistico con i mistici, geometrico con i geometrici, borgesiano con Borges, kafkiano con Kafka.
Ecco, forse Citati è stato questo: non un critico (pur essendolo), non uno scrittore (pur essendolo) ma una Letteratura, vasta come il mondo, capace di abbracciare idealmente tutto il Tempo e tutto lo Spazio. Per lui Omero, Tolstoj, Kant, Gesù Cristo, Sade, Mozart e tutti gli altri non sono figure del tutto individuali, a Citati non interessano il «giusto» e lo «sbagliato». Tutta la Letteratura - umanissima ma anche crudele fino all'efferatezza, sognatrice ma anche sanguinaria, scritta sui libri ma anche agita sul teatro della Storia - è come un unico testo, un'unica voce, onnipotente e insieme folle.
Da tante cose che mi disse personalmente e che mi scrisse posso dire con buona sicurezza che, per lui, questa voce è stata la voce stessa di
Dio. Citati mi parlò tante volte di un Dio che sta oltre il bene e il male e la cui luce, come quella della Letteratura e dell'Arte, sorge imparziale sui giusti e sugli ingiusti.Adesso i due si stanno parlando, finalmente.
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