Divertente e all'avanguardia Il debole del Duce per il jazz

Il fascismo ebbe con la musica nera un rapporto intricato e duplice. Mussolini la suonava e la ascoltava

Mattia Rossi

Esattamente un anno e mezzo fa, l'editore Jouvence pubblicava uno dei testi musicologici più anticonformisticamente interessanti dell'ultimo periodo: gli scritti musicali di Julius Evola (Da Wagner al jazz). Se nessuno poteva immaginarsi un Evola musicologo, ancor meno ci si poteva aspettare un Evola attratto dal jazz e dalla musica afroamericana in quanto «costituisce una delle forme di superamento del romanticismo».

Eh già, leggende a parte, l'Italia degli anni Venti e Trenta fu un vero e proprio volano per la musica jazz italiana. Ce l'ha confermato anche la storica della musica Anna Harwell Celenza, lo scorso anno, con un libro per Carocci (Jazz all'italiana) nel quale ha spiegato che Mussolini stesso vedeva nella modernità del jazz «un simbolo del regime fascista», pure negli anni delle leggi razziali quando l'Eiar indiceva concorsi alla ricerca di nuovi talenti jazz da inserire in palinsesto. Insomma, il tema dei rapporti tra fascismo e musica jazz, nell'ultimo periodo, ha subìto una (necessaria) rivalutazione. Da ultimo, arriva ora Jazz e fascismo (Mimesis, pagg. 178, euro 15) di Luca Cerchiari che, oltre a confermare i meriti, tratteggia anche alcune ombre legate alla «repressione» verso la musica afroamericana (ne è un esempio il velenoso pamphlet Jazz Band del '29 di Anton Giulio Bragaglia che volle ingraziarsi il regime attraverso la sua esterofobia musicale).

Quello tra jazz e fascismo fu, infatti, come emerge quasi sempre chiaramente nel lavoro di Cerchiari, un rapporto intricato e bifronte e, a volerne risalire le origini, occorre andare agli anni Dieci: il battesimo newyorkese del jazz coincise con la nascita italiana di un movimento fortemente proiettato verso la rottura con la tradizione, il futurismo. Casavola, musicista e teorico futurista pugliese, lo spiegò bene: «Il Jazz Band è il prodotto tipico della nostra generazione eroica, violenta, prepotente, brutale, ottimista, antiromantica, antisentimentale e antigraziosa». Dall'entusiasmo col quale il movimento di Filippo Tommaso Marinetti, che ammise di amare il «cakewalk dei negri», salutò il jazz, anche il fascismo accolse benevolmente la musica afroamericana: «Non ho nessuna antipatia per il jazz come ballabile e lo trovo divertente», affermò lo stesso Mussolini (da notare che il libro si chiude con una testimonianza del figlio Romano, guarda caso pianista jazz: «In casa si ascoltava di tutto. Mio padre fu contentissimo di sentirmi suonare il pianoforte: suonavo blues e standard americani, ma anche canzoni italiane. Egli voleva però che io imparassi a leggere bene la musica, cosa che lui sapeva fare»). A conferma di un rapporto amicale col fascismo, il jazz, negli anni Venti, riuscì a trovare spazio alla radio, l'Eiar, nonostante il consulente governativo per la musica fosse il visceralmente anti jazzista Pietro Mascagni: l'autore di Cavalleria rusticana mai estromesse il jazz dai palinsesti e, come segnala Cerchiari, al maestro Stefano Ferruzzi furono affidati, dal '27, la direzione dell'orchestra jazz in onda tre giorni a settimana e la conduzione del programma Jazz Band.

All'opposto di Mascagni si trovò Alfredo Casella, eclettico pioniere delle avanguardie, che al jazz dedicò, per primo in Italia, nel '29, alcuni scritti favorevoli nei quali definì il jazz come «l'unica musica la quale abbia indubbiamente lo stile novecentista. Il jazz sta dando ai musicisti seri una vera e grande lezione». Questa lezione, per Casella, che ben sperava nella rottura con la tradizione melodrammatica, era: «Date all'umanità una musica fatta di ritmo, di timbri e di melodia: una musica che tutto sia fuorché noiosa, una musica che - dopo tanti anni di grigiori intellettuali, di poemi sinfonici asfissianti, di esperimenti da laboratorio - rechi agli uomini la gioia sonora della quale hanno necessità».

Se, come detto, qualche screzio col regime ci fu, è anche vero che i veti autarchici verso il jazz angloamericano funsero da trampolino di lancio per la musica italiana.

Negli anni della Repubblica di Salò, infatti, si assistette in Eiar a una promozione del «gez» di casa nostra: le orchestre di Pippo Barzizza e Cinico Angelini, il Trio Lescano, Natalino Otto, Alberto Rabagliati, Franco Cerri, Glauco Masetti, Giampiero Boneschi, il grande fisarmonicista Gorni Kramer, il sassofonista Tullio Mobiglia... Più che di repressione, dunque, il fascismo fu protagonista di un attento controllo della musica jazz e, volenti o no, fu anche grazie al Ventennio che essa proliferò in Italia.

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