Nel milione di parole che Václav Havel ha scritto in una vita immensamente produttiva, è difficile trovare la parola «progresso» se non sempre vicina a un punto interrogativo. Questo non perché Havel fosse un conservatore incallito, al contrario. Sicuro per la solida speranza che «le cose hanno sempre un senso, comunque vadano a finire» piuttosto che per la convinzione che qualcosa potrebbe andare bene, ha sempre creduto e lavorato per la possibilità di migliorare il mondo fin da quando, bambino di dieci anni, ha concepito la Fabbrica del Bene, una fabbrica che produceva solo bontà.
Il motivo delle sue riserve sul progresso non era che non avesse familiarità con il concetto, ma piuttosto perché lo conosceva fin troppo bene. Lui e io abbiamo trascorso gran parte della nostra vita vivendo in un sistema politico che ha fatto del progresso il cuore della sua filosofia, ne ha certificato l'esistenza e ne ha imposto le politiche. Havel è cresciuto, e io sono nato, nel sistema più progressista che il mondo abbia mai conosciuto. Ogni giorno ricevevamo una prova del progresso nel volume sempre in aumento di acciaio fabbricato dai nostri eroici lavoratori dell'acciaio per mezzo dei sempre più numerosi milioni di tonnellate di carbone scavate dai nostri eroici minatori, ben nutriti dal mare di latte sempre più vasto prodotto dalle nostre eroiche vacche, nutrite con i raccolti di mais sempre più ricchi coltivati dai nostri eroici contadini. Noi, quelli del Campo della Pace e del Socialismo, siamo stati i primi alle Olimpiadi, i primi a generare elettricità per la rete dalle centrali nucleari e i primi a inviare un cane nello spazio.
C'erano solo alcuni problemi con questa immagine della società del futuro. Prima di tutto, non era del tutto vero. I numeri fantastici, se visti da soli, erano in realtà modesti rispetto a quelli di altri paesi, e spesso anche rispetto a quelli nostri di prima del comunismo. Mentre l'economia pianificata, serenamente ignara di domanda e offerta o di costi e profitti, era stata in linea provvisoria in grado di evitare le vicissitudini dei cicli economici, c'era poco da fare con i capricci del tempo che colpivano la produzione agricola, per cui i felici operai socialisti si raccontavano barzellette sul fatto che i quattro nemici più letali del socialismo erano l'inverno, la primavera, l'estate e l'autunno.
Per compensare questi piccoli difetti nel sistema, peraltro perfetto, fu necessario tenere nascosti alla popolazione i dati degli altri paesi, comunque sicuramente falsi. Per mantenere in diagrammi di crescita lineare nella grafica trionfante, a volte è stato necessario pasticciare un po' con dati precedenti, di sicuro obsoleti. Il futuro era certo; era il passato che continuava a cambiare. Poco importa se alcuni dei nostri campioni di atletica alle Olimpiadi fossero così pieni di steroidi anabolizzanti e altri farmaci per cui sono morti giovanissimi subito dopo i loro trionfi. Poco importa se la tecnologia nucleare, realizzata a tempo di record e a costi minimi, fosse soggetta a rischi e alla fine sia scoppiata insieme agli operatori del reattore n. 4 della centrale di Chernobyl. E non importa che il cane, un bastardo di nome Laika, sia morto praticamente arrostito vivo poche ore dopo il volo dello Sputnik 2, un dettaglio mai comunicato alla popolazione a quel tempo. Era tutto, si potrebbe dire, un modesto prezzo da pagare per il progresso.
Il problema più serio era che, essendo in sé progressista, il sistema non poteva, per definizione, spiegare i propri fallimenti. Quando si sono verificati dei guasti, devono essere stati causati da fattori indipendenti dal sistema progressista, il sistema iniziò a cercare, e trovò, i nemici del progresso, reazionari, sabotatori, rinnegati e dissidenti. Se i disastri continuavano a verificarsi, non era a causa di difetti strutturali, ma piuttosto per la mancanza di vigilanza, che rendeva necessario cercare nemici interni da epurare e punire. Ma il problema più importante era che, anche se il sistema garantiva progressi, non rendeva felici le persone e certamente non le rendeva libere. Senza informazioni e senza contatti con il mondo esterno, sempre con la paura di essere indicata come nemica del progresso, e priva di un tenore di vita dignitoso nonostante i milioni di tonnellate di acciaio prodotte, la gente ha iniziato a mostrare segni di malcontento, dapprima di nascosto e poi in modo sempre più esplicito e aperto, e, nel 1989 alla prima occasione, si liberò dal sistema super-progressista. E Havel, l'arci-reazionario, divenne presidente.
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Nel suo discorso, forse il più famoso, alla sessione congiunta del Congresso degli Stati Uniti nel febbraio 1990 Havel ha detto qualcosa che ha lasciato perplessi molti degli illustri rappresentanti e senatori, tanto che in seguito hanno chiesto con molta discrezione cosa intendesse Havel con le parole: «La coscienza precede l'essere, e non viceversa, come sostengono i marxisti». Queste parole erano una diretta confutazione del primato marxista del mondo materiale, il cuore dell'indottrinamento che abbiamo ricevuto a scuola e nei media. E Havel portò questo suo punto fino alla logica conclusione: «Per questo motivo, la salvezza di questo nostro mondo si trova solo nel nostro cuore, nella nostra capacità di uomini e donne di riflettere, nell'affetto e nella nostra responsabilità di uomini e donne. Senza una rivoluzione globale nella sfera della nostra coscienza, nulla cambierà in meglio nella sfera del nostro essere uomini e donne, e la catastrofe verso la quale questo mondo è diretto - ecologica, sociale, demografica o un generale collasso della civiltà -- sarà inevitabile».
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Invece di offrire rimedi specifici a queste carenze, magari sostituendo una ricetta tecnocratica con un'altra, ha offerto un senso di stupore, di autoanalisi e di umiltà scaturito dalla consapevolezza della nostra corresponsabilità per il futuro di questo mondo. Nel suo discorso «L'Europa e il mondo», pronunciato al Senato della Repubblica il 4 aprile 2002, ha affrontato direttamente il concetto di progresso come una delle cause di queste carenze: «Per esempio l'idea molto contagiosa, direi quasi aggressiva, di un continuo mutamento, di un progresso perenne, di sviluppo, di espansione, di conquista, di una crescita infinita che rilancia sempre se stessa, nonché l'idea di un mondo perfetto che occorre costruire con le buone, e quando non è possibile, anche con le cattive maniere; sono visioni tipicamente europee».
Non ha condannato il progresso ma, consapevole che non tutte le persone e le nazioni del mondo che si confrontavano con l'idea europea di progresso la condividevano, espresse la sua sfiducia nel progresso come principio guida autodichiarato: «Per questo abbiamo potuto diffondere, senza nessuna riserva, l'idea illuministica dello Stato di diritto e dei diritti umani, ma allo stesso tempo l'ideologia comunista o il razzismo, le tecnologie più sofisticate e le armi più moderne, potendo di volta in volta figurare in veste di crociati e di cristiani, di pionieri di progresso sociale e di colonizzatori, di coloro che creano la ricchezza mondiale globale e di coloro che, con la propria concezione economica del mercato, sospingono intere regioni nella miseria abbandonandole a se stesse, al loro paese ed al loro pianeta».
Havel offrì una soluzione provvisoria, ben sapendo quanto fosse improbabile che fosse universalmente accolta e accettata: «La domanda che pongo è questa: non è forse giunto il tempo per l'Europa politica di riflettere seriamente sulla sua cultura (o civiltà, il Pensiero Europeo), tentando di fermare il moto cieco di autopropulsione che la pervade? Un atteggiamento, affatto
impopolare, ma con molte prospettive, non rappresenterebbe un ritorno ad una delle tradizioni intellettuali più interessanti dell'Europa, alla tradizione del dubbio e dell'interrogativo, che iniziò nei tempi più remoti da Socrate?»
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