La benda nera all'occhio esibita di recente dal Cancelliere Olaf Scholz mal si combina con l'indole tedesca. Più incline, fin dalla guerra con la Francia negli anni 70 del XIX secolo, alla conquista territoriale e meno attratta dal mordi e fuggi piratesco. Così, al posto di un'agile nave corsara capace di restare a galla nel mare tempestoso della globalizzazione, oggi Berlino si ritrova al timone di una Bismarck che fa acqua da tutte le parti. L'ultimo dato sugli ordini alle industrie, un tramortente -11,7% in luglio che si impila sugli sfaceli pregressi del manifatturiero, ha il sapore di un certificato di morte presunta per il suo modello di successo. Costruito, seppur in parte, sul minor peso valutario dell'euro rispetto al marco e sul dumping salariale, praticato fin nei primi anni di vita della moneta unica e poi tenuto a galla anche con la riforma del mercato del lavoro Hartz IV. L'abnorme (e fuorilegge) surplus di bilancio è nato da lì.
Questa Weltanschauung economica sembra ora essere finita sul binario morto. Al punto che, come nei primi anni Duemila, la Germania è considerata la malata d'Europa. «Credo che questa sia una diagnosi sbagliata, che viene colta troppo facilmente da molte persone. Dovremmo essere più sicuri di noi stessi», dice il presidente della Bundesbank, Joachim Nagel. Giusto quindi farsi inoculare una bella dose di fiducia da quel Nagel a cui piace, quando indossa la divisa Bce, l'odore dei tassi surriscaldati al mattino e che ha contribuito a traghettare il Paese nella bolgia della recessione. Aggiunge il capo della Buba, da falco fattosi colomba: «Il modello economico tedesco non è in scadenza. Ma ha bisogno di un aggiornamento». Insomma: un bel refresh e si riparte più forti che pria, poiché «la situazione odierna non può essere paragonata a quella di 20 anni fa». E se «lo sviluppo economico non è stato soddisfacente», per colpa della «pandemia e dell'aggressione russa all'Ucraina», «prevediamo che nel prossimo anno il quadro si illuminerà di nuovo».
In attesa che la lampadina Osram si accenda su tutti i Länder, Berlino ha provato ad aggiustare il tiro con magheggi contabili da Club Med - come direbbe l'indice accusatorio dei frugali - congegnati dal ministro delle Finanze, Christian Lindner. L'inflessibile guardiano del rigore ordoliberista (con i conti degli altri) è però stato subito sgamato dalla sua Corte dei Conti, pronta a sventolargli davanti al naso un deficit di oltre 85 miliardi contro i 16 e rotti previsti e rimproverargli l'impiego disinvolto di veicoli finanziari per coprire spese straordinarie fuori bilancio. Al primo verboten, si è aggiunto ieri anche il proibito della Commissione Ue che ha ricordato a Berlino che «non è possibile per nessuno Stato membro escludere alcuna spesa particolare dal suo deficit pubblico in modo ad-hoc (ad esempio attraverso l'uso di fondi speciali)».
Berlino si trova così con le spalle al muro a una manciata di giorni dal vertice di Santiago di Compostela dei 27, quando con qualche difficoltà potrà far ancora la voce grossa sulla riforma del Patto di stabilità attraverso l'imposizione di vincoli ferrei per l'assorbimento di deficit e debito. Non è invece da escludere, magari in cambio di maggiore flessibilità sugli aiuti di Stato, la convergenza verso il progetto di Bruxelles che taglia su misura per ogni singolo Paese, in tempi variabili da quattro a sette anni, il risanamento delle finanze pubbliche.
Mentre risulterebbe clamorosa un'inversione a 180 gradi, con l'accettazione della proposta di Italia, Francia e Spagna di non includere nel calcolo del disavanzo alcuni investimenti. Un'idea talmente malsana che i tedeschi hanno provato a metterla in pratica - aumma aumma - in casa propria.
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