La crisi economica ha evidenziato le differenze tra la politica monetaria europea e quella americana. Che ha contrapposto al quantitative easing sperimentato dalla Federal Reserve le misure non convenzionali adottate dalla Bce (soprattutto da quando al timone c’è Mario Draghi). Misure su cui non mancano dubbi e perplessità, sia in termini di efficacia, sia di appropriatezza, anche alla luce dei (faticosi) passi in avanti verso l’unione bancaria europea. Su questo fronte, da più parti si chiede non solo di completare il percorso con la realizzazione dei tre pilastri (supervisione unica, meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie e assicurazione dei depositi), ma anche di dotare l’Ue di un bilancio unico. E, quindi, di una politica fiscale unitaria.
Realtà o utopia? A questa domanda ha provato a rispondere una tavola rotonda organizzata da BancaFinanza e Nifa (New international financial association) nella sede romana di Azimut. Al dibattito, moderato da Angela Maria Scullica, direttore di BancaFinanza, Giornale delle Assicurazioni ed Espansione, e da Filippo Cucuccio, giornalista economico e direttore generale dell’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del credito (Anspc), hanno partecipato Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Snam e visiting scholar presso lo Iai; Vincenzo Chiorazzo, responsabile dell’ufficio analisi economiche dell’Abi, intervenuto su delega del presidente Antonio Patuelli; Dario Focarelli, direttore generale dell’Ania; Ettore Greco, direttore generale dell’Istituto affari internazionali; Mauro Maré, professore ordinario di Scienza delle finanze all’università della Tuscia e presidente di Mefop; Marcello Messori, professore ordinario di Economia politica alla Luiss di Roma; Gustavo Piga, professore di Economia politica all’università di Roma 2 Tor Vergata. Ed ecco che cosa è emerso.
Domanda. Partiamo dalla Banca centrale europea: come si sta trasformando?
Greco. L’evoluzione della Bce deve essere esaminata in un contesto più ampio. E cioè il ricorso massiccio delle principali banche centrali a politiche di espansione monetaria, che hanno portato a una crescita senza precedenti dei loro bilanci. Queste strategie hanno contribuito in maniera decisiva alla stabilizzazione dei mercati, influenzando positivamente le aspettative. Gli effetti sull’economia reale sono, però, molto più controversi. Specialmente in Europa, dove il credit crunch continua a rivelarsi uno dei principali ostacoli alla ripresa. Ma c’è anche il rovescio della medaglia che non deve essere sottovalutato: le politiche monetarie accomodanti comportano il rischio che si formino nuove bolle e si generino nuovi squilibri e vulnerabilità. Il timore è che, mentre si cerca di uscire dalla crisi attuale, si stiano in realtà gettando le basi per nuove crisi in futuro. Non sembrano esserci chiare strategie di uscita dai programmi di espansione monetaria: è significativo che, quando Ben Bernanke annunciò il graduale abbandono del programma di quantitative easing, i mercati reagirono subito con chiari segni di grande nervosismo. Costringendo la Fed a una precipitosa marcia indietro. Come si esce, quindi, da questa situazione, dato che ci vorrà tempo prima che gli stimoli monetari possano essere sostituiti da una domanda privata? Le cose da fare sono due: rafforzare il coordinamento macroeconomico a livello globale (G 20) e attuare una serie di riforme strutturali dei sistemi economici nazionali.
Bini Smaghi. Prima di parlare del ruolo della Bce desidero fare qualche considerazione di ordine generale.In tutti i paesi avanzati, le banche centrali hanno assunto un ruolo essenziale durante la recente crisi finanziaria. In particolare, nel determinare le condizioni in cui viene effettuato il processo di riduzione del debito eccessivo accumulato in passato, sia dal settore pubblico, sia da quello privato. Infatti, se la riduzione della leva finanziaria avviene troppo rapidamente, rischia di produrre effetti recessivi sull’economia e di innescare un circuito perverso che può addirittura portare al default. Se la riduzione è invece troppo lenta, l’aggiustamento viene rimandato e il sistema finanziario rimane fragile, incapace di sostenere la ripresa. Attraverso la politica monetaria, in particolare il tasso d’interesse, la banca centrale può favorire un aggiustamento equilibrato del sistema economico. In ultima istanza spetta comunque agli operatori, pubblici e privati, adottare misure e comportamenti che determinano la correzione dal debito eccessivo. La politica monetaria consente dunque solo nel guadagnare tempo per mettere in atto l’aggiustamento necessario. Se il tasso di interesse determinato dalla banca centrale è troppo alto, l’onere dell’aggiustamento rischia di ricadere in modo eccessivo sui debitori, in particolare sui contribuenti e di innescare una recessione che può allungare i tempi. Una politica fiscale restrittiva ha in effetti bisogno di una politica monetaria accomodante per poter contenere i costi della restrizione in termini di crescita e occupazione, e rendere l’aggiustamento sostenibile. D’altro canto, una politica di tassi d’interesse molto bassi rischia di togliere qualsiasi incentivo all’aggiustamento fiscale o all’attuazione delle riforme strutturali per migliorare la competitività del paese. Dato che queste misure, dal punto di vista politico, sono costose, è interesse di chi governa poter beneficiare di tassi di interesse molto bassi, per un periodo di tempo il più lungo possibile. In modo da diluire l’aggiustamento e rimandarlo a tempi migliori. La banca centrale si trova, così, di fronte a un dilemma. Se non interviene sui mercati, rischia di lasciar sviluppare una crisi finanziaria ed economica, con ripercussioni fortemente negative per il sistema. Se interviene troppo, toglie l’incentivo all’aggiustamento, che rischia di verificarsi attraverso l’inflazione e la socializzazione delle perdite che derivano dal debito eccessivo.
D. Qual è stato il ruolo della Bce negli ultimi anni?
Bini Smaghi. Semplice: si è confrontata - in varie occasioni - con il dilemma che ho appena ricordato. Nel maggio 2010, al momento della crisi greca, ha dovuto attendere l’impegno dei governi europei di creare il Fondo salvastati prima di intervenire sul mercato dei titoli di stato ellenici. Se non lo avesse fatto, i governi avrebbero rimandato continuamente la decisione, ritenendo che la Bce avrebbe risolto il problema. Nell’estate del 2011, la banca centrale chiese ai governi italiano e spagnolo impegni precisi prima di intervenire per contrastare l’aumento degli spread sui titoli di stato. Nell’estate del 2012, infine, la Bce ha annunciato il lancio dell’Outright monetary transactions (Omt, cioè l’acquisto di titoli di stato a breve termine emessi da paesi in grave difficoltà macroeconomica, ndr). Un piano che, però, è stato condizionato alla definizione di un programma di aggiustamento da parte di quei paesi. In ogni occasione l’intervento dell’Eurotower ha determinato una riduzione delle pressioni sui mercati finanziari, ma ha anche rilassato l’incentivo dei governi all’aggiustamento. Lo stesso è avvenuto quando Francoforte ha adottato strumenti non convenzionali di politica monetaria, come i prestiti a lungo termine alle banche, a tassi fissi. L’erogazione di liquidità a basso costo ha contribuito a ridurre le tensioni sui mercati finanziari, ma ha anche indotto le banche a continuare nell’acquisto di titoli di stato, piuttosto che ristrutturare i propri bilanci.
Piga. Credo che sia essenziale chiedersi in che misura la strategia monetaria della Bce dipenda dalla politica. Milton Friedman, premio Nobel per l’economia, auspicava una forte dipendenza del banchiere centrale dagli eletti dal popolo. E così in realtà è con la Bce, malgrado le apparenze: la banca centrale tiene tanto al consenso della popolazione tedesca, e non solo.Per fare un esempio di quanto incida la politica, consideriamo le vicende legate al nostro spread. Intorno al 29-30 di agosto 2012 crolla. Il successivo 10 settembre, lo Der Spiegel indica il cambio di rotta della Merkel sul salvataggio alla Grecia come la vera ragione di questo calo: una decisione politica che spiega poi l’obbediente e disciplinata reazione della banca centrale guidata da Draghi. E non potrebbe essere altrimenti: un banchiere centrale indipendente, diceva Friedman, verrà sempre rimpiazzato. Per fortuna. Un’altra domanda che mi pongo è: quanto vale una politica monetaria ulteriormente espansiva? Poco, a questo punto. Questa che stiamo attraversando è una crisi da domanda interna: o ritroviamo l’ottimismo di investire o la maggiore liquidità non si tradurrà nella crescita della domanda di credito. Il calo dello spread sicuramente aiuta le banche. Ma non l’economia, in assenza di una politica fiscale più coraggiosa in senso espansivo.
Messori. Sono d’accordo: da parte della Bce, si è “comprato tempo”. Per fare questo, la banca centrale ha avuto l’esigenza di disegnare e di giustificare un ampliamento dello spazio e, quindi, dei compiti della politica monetaria anche in area euro. È bene precisare perché ho usato l’espressione “anche in area euro”. In questo periodo di crisi, la politica monetaria è stata chiamata a un’opera di supplenza in quasi tutti i paesi economicamente avanzati. Restringendo il confronto agli Stati Uniti, la politica espansiva e non convenzionale della Federal Reserve ha avuto un forte impatto sull’economia reale, che è stato, però, pagato con una perdita di indipendenza rispetto alle decisioni politiche. Viceversa, nel caso della Bce di Draghi, il rispetto dei vincoli istituzionali imposti dalla (incompiuta) costruzione europea e gli squilibri fra gli stati membri hanno limitato l’efficacia della politica monetaria tradizionale. Ma anche le iniziative più innovative (per esempio: Ltro e Omt) hanno salvaguardato, in modi rigorosi, l’indipendenza della Bce rispetto alla politica. La responsabilità aggiuntiva (cioè quella di supervisione europea), che la Bce è chiamata ad assolvere dal processo di unione bancaria, rappresenta tuttavia una minaccia a questa indipendenza. Infatti, ponendosi al centro del meccanismo unico di vigilanza, l’Eurotower non dovrà solo istituire forme di cooperazione con le banche centrali nazionali. Ma dovrà soprattutto evitare i conflitti con i singoli stati membri, che cercheranno di tutelare per via politica i rispettivi settori bancari nazionali. Data la governance del meccanismo unico di vigilanza e la regolazione dei suoi rapporti fra tale meccanismo e l’Eba, la probabilità di potenziali conflitti sarà molto alta in due casi: quellodei paesi che aderiranno all’Unione bancaria pur non facendo parte dell’area dell’euro e di quelli che non vi entreranno.
Chiorazzo.Proverò a esprimere una valutazione sulla politica monetaria della Bce attraverso le lenti delle banche italiane, tenendo distinti il pilastro delle politiche convenzionali da quello delle politiche non convenzionali. Partendo dal primo, è utile ricordare il dato di fondo sull’inflazione che, nel periodo 1999-2012, è stata mediamente pari al 2,03%. L’obiettivo stabilito dal mandato di stabilità monetaria è stato, quindi, conseguito. Nel complesso, e con l’eccezione della fase recessiva 2008-2009, il tasso di mercato monetario è stato inferiore al tasso di crescita del Pil nominale. Quella della Bce è stata una politica tendenzialmente espansiva, che ha “mimato” quella della Fed, sia pure con le mitigazioni legate alla presenza della Bundesbank. La domanda allora è: quali sono gli effetti di politiche di tassi di interesse bassi sulle banche italiane? Gli esiti finali sono stati decisamente positivi, grazie soprattutto alla gestione della fase di crisi di liquidità successiva a quella sovrana. Quanto invece agli effetti diretti sui bilanci bancari, avrei dei dubbi. La politica monetaria ha, infatti, contribuito al forte restringimento degli spread bancari (forbice tra tassi attivi e passivi) e quindi alla riduzione pronunciata del margine da interessi. Passando, poi, al capitolo delle politiche non convenzionali, sono convinto che siano state vitali; probabilmente hanno marcato la discontinuità tra la gestione Trichet e quella Draghi. Una discontinuità che si avverte soprattutto tra la fase pre e post crisi sovrana. Il vero cambiamento non sta però nel rifinanziamento lordo, ma nel rifinanziamento netto (cioè al netto dei ri-depositi in Bce) che verso la fine del 2011 si erano praticamente azzerati a motivo di accaparramento (liquidity hoarding) delle banche dei paesi core. In particolare per l’Italia (vittima di un massiccio ritiro degli operatori da carta targata Italy) e per le nostre banche, le Ltro sono state decisive, perché hanno potuto sostituire la raccolta estera all’ingrosso nel frattempo venuta meno. Senza quelle risorse sarebbe stato necessario interrompere linee di credito e non rinnovare prestiti per far fronte all’ingente massa di obbligazioni che arrivava a scadenza (poco meno di 200 miliardi di euro su tutto il 2012). Poi, certo, le risorse sono state anche utilizzate per acquisti di titoli di stato, sia (in un primo momento) a breve termine, sia (in seguito) più a lungo termine. Senza tralasciare gli aspetti legati al problema del funding gap, che risente anche dell’andamento insoddisfacente dei saldi finanziari delle famiglie nel 2012 .
Focarelli. Negli ultimi anni, come è stato già messo in evidenza, le banche centrali delle maggiori economie avanzate hanno intrapreso azioni di politica monetaria anche di tipo non convenzionale per fornire ampia liquidità al sistema e, per questa via, prevenire il collasso delle banche, dei paesi e dei mercati finanziari. Ho sempre pensato che questo tipo di politiche, se c’è davvero necessità, rientrino pienamente nel mandato delle banche centrali, nate per assicurare la stabilità monetaria e finanziaria. Così facendo, dunque, le banche centrali hanno comprato tempo. Uso non a caso il termine “comprare” il tempo, perché questa politica ha un prezzo: favorire il formarsi di nuove bolle del valore degli asset. In particolare, sono preoccupato dal livello eccezionalmente basso dei tassi di interesse a lungo termine, per esempio quelli decennali. Le conseguenze investono anche il mondo delle assicurazioni, dove il tema è di assoluto rilievo. Sia perché le compagnie investono una quota significativa in titoli obbligazionari a lungo termine, sia perché devono calcolare il valore delle proprie passività, scontando i flussi di cassa futuri con l’attuale curva dei tassi risk free. Ovviamente, più bassi sono i tassi a lungo termine, maggiore è il valore delle passività, e più concreto il rischio di dover rafforzare la posizione patrimoniale. In un regime di tassi a lungo termine in riduzione e su livelli bassi, le assicurazioni tendono ad adottare due strategie combinate. La prima vuole rimodulare il livello di garanzie sui contratti offerti in termini sia di rendimento minimo garantito, sia di flessibilità delle garanzie. La seconda strategia consiste nell’allungare la duration del passivo e ridurre il tasso di rotazione del portafoglio. Gli effetti dei tassi di interesse bassi si sono manifestati in maniera diversa da paese a paese. Per esempio: nei paesi dell’Europa centro-settentrionale, tra cui la Germania, strutture di garanzia piuttosto rigide hanno amplificato l’effetto dei livelli bassissimi, inferiori a quelli medi europei, raggiunti dai tassi dei titoli a reddito fisso. Le imprese italiane, d’altro canto, hanno mantenuto o addirittura aumentato la già significativa quota dei loro portafogli investita in titoli di stato italiani, dal profilo rischio/rendimento relativamente elevato, e hanno allineato la durata finanziaria delle poste dell’attivo e del passivo. Molte compagnie, inoltre, hanno rimodulato le garanzie sui prodotti vita per ridurne l’onere patrimoniale. Anche questo esempio testimonia l’esistenza di una segmentazione del sistema finanziario europeo, che si è acuita nel corso della crisi 2011-12, quando tutti gli operatori hanno rafforzato l’home bias nelle scelte di investimento, e che ora si va lentamente ricomponendo. Ma non sarà un processo breve, come peraltro è testimoniato dal fatto che in Solvency 2 non si sia riusciti a identificare in modo univoco la curva europea dei tassi risk free .
Maré. Alcune analisi condotte in sede Ocse e Fmi mettono in evidenza come le imposte sui redditi da lavoro e sulle imprese abbiano effetti decisamente più distorsivi di quelle sui consumi e sul patrimonio, che risultano più efficienti. La questione non è, né banale, né secondaria, per le differenze che si registrano nei diversi paesi dell’area euro. Ed è un dato di fatto di cui bisogna tenere conto quando si affronta l’aspetto dell’unione fiscale tra paesi Ue. Per non coltivare false illusioni e cedere a facili entusiasmi basta una domanda: in che misura sono disponibili i paesi a cedere pezzi di sovranità del proprio bilancio? E non parlo solo di paesi dell’Europa del nord, ma anche della Francia da sempre nemica di una reale politica dell’unificazione fiscale. Dunque, andrei molto cauto nel parlare di potenziali sviluppi immediati del federalismo fiscale, considerato che a oggi non è stata ancora delineata una roadmap per realizzare una vera unione. E che la percentuale di risorse destinate al bilancio Ue continua a essere veramente trascurabile (l’1% del Pil europeo).
D. Ma allora qual è il nuovo ruolo della Banca centrale europea nel futuro, tenendo conto delle lezioni apprese dai cinque anni di crisi?
Greco. La crisi ha portato a un cambiamento sostanziale del ruolo della Bce. Si discute, in particolare se, con il varo dell’Omt nel settembre 2012, la banca sia andata al di là del suo mandato. Com’è noto, in Germania l’hanno sostenuto in molti. Appare però molto più convincente la tesi secondo cui, di fronte all’aggravarsi della crisi finanziaria, la Bce ha scelto di lanciare l’Omt (finora mai usato) proprio per attuare il suo mandato di politica monetaria. Si vedrà cosa deciderà in merito la Corte costituzionale tedesca, ma è improbabile che vada oltre qualche restrizione alla partecipazione della Germania al programma - anche se alcuni prevedono che potrebbe rinviare la questione alla Corte di giustizia europea. Ma non c’è soltanto l’Omt. La Bce si è assunta, di fatto, il compito di prestatore di ultima istanza delle banche. Facendo parte della Troika, ha anche acquisito un ruolo nel monitoraggio dell’attuazione dei programmi di assistenza. Inoltre, con il meccanismo unico di supervisione dell’unione bancaria, le è stata assegnata la vigilanza microprudenziale. Inevitabilmente, questi nuovi compiti pongono anche problemi inediti, fra cui un possibile aggravamento del cosiddetto “azzardo morale”. Particolarmente discussa è, poi, la compatibilità tra la missione della Bce di garantire la stabilità dei prezzi e il suo ruolo di vigilanza nell’ambito dell’unione bancaria. Tuttavia c’è chi invece sottolinea, e non a torto, che fra le due funzioni si può invece creare un’utile sinergia. In definitiva, bisogna prendere atto che, con una crisi devastante come quella che stiamo vivendo, le istituzioni europee sono necessariamente chiamate a ripensare i propri compiti: e anche la Commissione e il Consiglio europeo ne hanno assunti di nuovi.
Piga. La soluzione è in una politica fiscale espansiva che ravvivi la domanda interna e trascini con sé occupazione e reddito. Ma come realizzarla? Con una “unione fiscale”? No. Per giustificare questa risposta basta guardare agli Stati Uniti del primo Ottocento, quando l’unione monetaria era giovane come la nostra oggi. Scopriremmo, come sostiene il Nobel Tom Sargent, che bisogna considerare la politica fiscale come cultura. Nessuna comunità cederà al “centro” della federazione la conduzione della politica fiscale se non si sente sufficientemente simile agli altri stati. E per sentirsi simili bisogna convivere a lungo, molto a lungo. Gli Stati Uniti ci hanno messo quasi 150 anni per farlo. C’è dunque bisogno di un’altra soluzione. Compriamo tempo, quindi. Compriamo tempo fornendo supporto del sud Europa: in questo modo faremo anche l’interesse dell’area nord. Basta ricordare che gli operai tedeschi hanno bisogno di una diminuzione della pressione fiscale, che gli permetta di andare in vacanza in Grecia e di comperare frigoriferi italiani. E l’Italia? Sappiamo che l’austerità ha fatto schizzare verso l’alto il debito pubblico sul Pil. Abolire l’austerità senza deficit si può fare? Certo. Basta realizzare una vera spending review, perché il taglio dello spreco non è mai recessivo. E usare quelle somme per finanziare nuova spesa pubblica, reale e produttiva, di cui il nostro territorio e le nostre imprese sono assetati.
Messori. Per valutare la possibile evoluzione della politica monetaria, è bene distinguere fra breve e lungo periodo. Nel primo, mi aspetto un protrarsi di strategie espansive e non convenzionali da parte di tutte le banche centrali delle maggiori aree economiche. Non credo, invece, che simili politiche possano continuare a lungo termine.A questo riguardo, gli interrogativi cruciali sono due e riguardano le banche centrali di Europa e Usa. Primo: la Bce può incentivare il settore bancario (specialmente nei paesi periferici) a utilizzare la liquidità per i finanziamenti delle attività produttive? E, negli Usa, fino a quando - e in quale misura - la Fed potrà influenzare la curva dei tassi di interesse mediante acquisti di titoli a lungo termine? Nel prossimo futuro, c’è inoltre il rischio di uno sfasamento fra ripresa statunitense e tedesca e stagnazione in gran parte dell’area dell’euro. Ci si chiede ancora: la Bce avrà la forza di mantenere politiche espansive non convenzionali in presenza di una progressiva inversione di tendenza da parte della Fed? Questo interrogativo è poi appesantito dall’intreccio fra politica monetaria e fiscale. Quale sarà, dunque, l’efficacia di politiche monetarie accomodanti, se la Bce non troverà una sponda in politiche fiscali europee ispirate a criteri più solidaristici? È veramente difficile dare una risposta convincente a questi interrogativi, che incombono come spade di Damocle sul futuro dell’area dell’euro. Il quadro si chiarirebbe se ci fosse un disegno politico chiaro e unitario per la realizzazione di una roadmap, disegnata dal presidente del consiglio europeo in collaborazione con i leaderdi altre istituzioni, che possa costruire una genuina unione europea. Ma, al momento, è davvero difficile cogliere un disegno di questo tipo.
Bini Smaghi. Da varie parti sono giunte pressioni per modificare gli statuti delle banche centrali, in particolare la Bce. E aggiungere la stabilità finanziaria a quella dei prezzi come obiettivo prioritario. Che, tuttavia, non dipende solo dalla politica monetaria, ma anche da altri fattori, in particolare la finanza pubblica. Se la banca centrale assumesse la responsabilità anche per la stabilità finanziaria, sarebbe costretta a mettere in atto politiche monetarie molto accomodanti, a prescindere dall’aggiustamento messo in atto dagli altri operatori. L’obiettivo della stabilità dei prezzi ha consentito alla Bce di poter mettere in atto politiche innovative, anche di forte sostegno alla stabilità finanziaria, proprio perché coerenti con la stabilità dei prezzi. Il rischio di politicizzazione delle banche centrali si evidenzia anche con l’attenzione spasmodica a come vengono prese le decisioni, e a come si comportano i singoli componenti degli organi preposti. Nel contesto europeo c’è una crescente attenzione alle modalità di voto e all’influenza della nazionalità dei vari componenti. In realtà i banchieri centrali sono conservatori, e muovono gli strumenti di politica monetaria con attenzione, per evitare una perdita di credibilità. Cercano anche un ampio consenso al loro interno, prima di prendere decisioni rilevanti. Ciò si verifica non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti. Le banche centrali - e in particolare la Bce - svolgono un ruolo fondamentale nel processo di aggiustamento. Alcuni vorrebbero che svolgesse un ruolo addirittura maggiore, finanziando direttamente i governi. Ciò non solo sarebbe contrario al mandato, ma creerebbe anche incentivi perversi per gli altri operatori economici, ritardando il loro aggiustamento. Scaricare la responsabilità sulla politica monetaria è facile, ma non consente di risolvere i problemi di debito eccessivo accumulato nelle economie sviluppate.
Focarelli. Passo alle prospettive a breve, soffermandomi su due temi. Il primo è relativo al come e quando i tassi di interesse a lungo termine torneranno a salire. Il secondo alla varianza dei tassi tra i diversi paesi dell’area dell’euro. Sul primo punto sono convinto che saranno decisive le scelte dell’autorità monetaria americana sulla prosecuzione del quantitative easing. Gli operatori sembrano ora credere - a differenza dell’estate scorsa - che la Fedla prolungherà almeno nella prima metà del prossimo anno. Ma su questo sinceramente avanzo delle perplessità. Sul secondo punto, invece, credo che si debbano risolvere questioni squisitamente politiche. Sono certo che una spinta all’integrazione del sistema europeo, e quindi alla riduzione delle segmentazioni nazionali, potrà arrivare dalla realizzazione della banking union. Che dovrà riguardare tutti i suoi elementi costitutivi: dalla vigilanza unica europea, al meccanismo unico di risoluzione delle crisi, al sistema armonizzato di assicurazione dei depositi bancari. In questa ottica fare l’asset quality review senza aver chiaro come supportare le banche può essere rischioso, come chiaramente dimostrato dai risultati dello stress test di Eba del 2011.
Chiorazzo.Si è detto che la Bce ha “venduto” tempo e poi è stato detto che lo ha “comprato”. Credo che utilizzare questo termine metta in evidenza il fatto che ci sia un potenziale prezzo che si rischia di pagare. E tuttavia, alla fine, preferirei il termine “prestare” tempo: perché il problema vero è che i governi ora devono portare risultati. Quanto al tema del deficit, per avere un programma che ne accetta di più oggi per avere meno debito domani, servirebbe una stabilità politica che non abbiamo: quindi, mi guarderei bene dallo sfondare i parametri europei. Piuttosto, molto c’è da fare ricomponendo la qualità della spesa pubblica. Certamente alcuni paesi, Germania in testa, potrebbero e dovrebbero giocare un ruolo diverso, nel risanamento della finanza pubblica dell’area euro. Un ruolo più asimmetrico. Con un’ulteriore avvertenza : nella finanza pubblica esistono le “non linearità”. In altri termini, con un debito elevato come il nostro, i processi possono cambiare direzione anche molto velocemente. Quindi bisogna stare molto attenti a conservare il risanamento effettuato e proseguirlo lungo linee “amiche della crescita”. Infine, noi confidiamo molto nell’unione bancaria europea. Avremo a breve le linee guida della comprehensive assessment della Bce: ci auguriamo che siano davvero eliminate le molte penalizzazioni che abbiamo finora sopportato, a partire dalle definizioni dei non performing loans .
Maré. Ho sentito parlare di cultura fiscale e di fiscal compact. Vorrei, però, fare subito una precisazione. Qui si sta pensando a forme di federalismo fiscale senza avere una vera federazione. Perché diciamocelo una volta per tutte: l’Ue non si può ancora definire una federazione. E allora, come poter pensare a un bilancio unico in cui prevedere forme di sostegno finanziario dai paesi più ricchi a quelli meno avvantaggiati? E come pensare a un Tesoro unico? E con quali meccanismi di governance, se come si è già detto ben pochi sono gli stati disponibili a cedere pezzi della loro sovranità? Sono interrogativi ineludibili e ai quali sarà necessario dare in prospettiva una risposta adeguata, se si vuole veramente arrivare a una Ue federata.
In altri termini, deve essere chiaro a tutti che la strada dell’Europa unita non può che passare attraverso una forma di bilancio federale, ma occorre una precisa e decisa volontà politica e una riforma del tipo di entrate e di spese adesso gestite dall’Ue (il che non significa, peraltro, che ciascuno degli stati aderenti non debba, come si usa dire ora, “svolgere i propri compiti a casa”). Altrimenti staremo sempre a parlare di asimmetrie e di squilibri difficilmente sanabili.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.