da Berlino
Apertura francese per il Festival tedesco con La môme («La ragazzina», ma il titolo internazionale è La vie en rose) di Olivier Dahan, dove Marion Cotillard (Big Fish) interpreta Edith Piaf proprio come Helen Mirren interpretava la regina Elisabetta in The Queen e veniva premiata alla Mostra di Venezia: imitandola. Lo fa benissimo, ma è veramente questo che si vuole da un attrice? Per i francesi d'età, vedere la Cotillard arrancare anchilosata come la Piaf sarà un'emozione. Il resto del pubblico, anche in Francia, ricorda - se le ricorda - più le canzoni che la vita della Piaf, nata a Parigi nel 1915 e morta a Grasse nel 1963 (lo stesso giorno della disgrazia del Vajont). La vie en rose, Milord, Non, je ne regrette rien echeggiano infatti ancora ovunque. Ma chi, sotto i cinquant'anni, sa da dove venisse la Piaf e soprattutto da dove traesse la disperata forza per cantare così?
Volto sofferto su un corpo esile, segnato dalla tara dall'alcol, la Piaf era un personaggio degno della Bête humaine, che fosse il romanzo di Zola o il film di Renoir. Con la sua aria maledetta, negli Stati Uniti come in Italia la Piaf è parsa roba da intellettuali, che allora erano francofili e s'incantavano per questo sgraziato ibrido fra Cocteau e Sartre. Negli anni Quaranta, quando lei s'imponeva nel mondo, l'Italia era ancora quella che s'era estasiata in tempo di guerra per le vicissitudini dei «pinguini innamorati» che, negli anni Cinquanta, s'era dato a confrontare la statura di «papaveri e papere».
S'aggiunga che come lesbica, ex prostituta, poligama e morfinomane, la Piaf era lo scandalo impersonificato, senza nemmeno esser bella come lo sono oggi una modella, una velina o un'attrice. Fra i divi dello sport, solo Marcel Cerdan, campione del mondo di pugilato, la trovò seducente, ma incappò subito nella maledizione che gravava su chi alla Piaf era caro: dopo averla raggiunta negli Stati Uniti per sua richiesta (Cerdan aveva moglie e tre figli), sulla via del ritorno lui morì in un incidente aereo.
A quarantatré anni dalla morte della Piaf, più che la sua voce, è il potere della lobby lesbica a farla riproporre da questo film compilativo ma dignitoso, girato con vasti mezzi e che ha ottenuto la prima vetrina del grosso festival più gayo che ci sia. Dahan, che è del ramo, ha omesso parti importanti della vita della Piaf (l'amore durante l'occupazione tedesca per Yves Montand, per esempio), ma ha sottilineato quello per «Momone» (Sylvie Testud).
In piccoli ruoli La môme presenta altre celebrità: Clotilde Courau (già attrice nell'Esca di Bertrand Tavernier, Orso d'oro nel 1996, oggi moglie di Vittorio Emanuele di Savoia) è la madre che l'abbandona quando ha solo tre anni e sta diventando cieca; Gérard Depardieu è l'impresario che la lancia quando ne ha venti e che paga con la vita averla tolta dal marciapiede di Belleville. Peccato che Dahan abbia esitato nel concludere il film, dandogli quattro finali e poi ricominciando, fino a concludere nel modo più banale: alternando, come nel resto del film, immagini dell'atroce declino dalla Piaf (a quarantotto anni ne dimostrava il doppio) a immagini degli atroci inizi. Il tutto in due ore e venti, quando si poteva chiudere decentemente in un'ora e mezza. Peggio, due ore e venti dove ci si raccapezza solo se si conosce già il personaggio.
Che cosa resta della Piaf, oggi, a parte il film? Il suo essere stata la colonna sonora di un'epoca di declino per la Francia, fra occupazione tedesca (altro periodo glissato) e decolonizzazione. Un declino che de Gaulle avrebbe frenato, non fermato.
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