
I frutti del Congo a cui allude l'omonimo romanzo di Alexandre Vialatte (Prehistorica Editore, pagg. 379, euro 20, traduzione di Gabriella Bosco), erano all'origine una réclame: una donna di colore, un cesto di limoni, lo scontrarsi dello scuro contro il chiaro, del nero contro l'oro. A posare per il bozzetto pubblicitario era stata una cameriera di boulevard Saint-Michel, ma in seguito quella stessa immagine venne riutilizzata per la campagna di arruolamento nelle colonie, un invito ai giovani aspiranti ufficiali, quelli che avrebbero vegliato «alla frontiera dell'impero con il bicchiere in mano», a cogliere quei frutti in tutti i sensi, una sorta di «contrabbando dell'Africa», in fondo... Nella Francia novecentesca del primo dopoguerra, e in specie nella Francia profonda e addormentata, l'esotismo era un miraggio da accarezzare da lontano, pena altrimenti la perdita di ogni illusione e la decadenza fisica fra un eccesso di chinino per ammazzare la malaria e un eccesso di pastis per ammazzare le cafard, la noia, la nostalgia di casa... L'unica alternativa, prerogativa dell'infanzia e sino all'adolescenza, consisteva nel trasformare quel sogno lontano in una realtà presente, una sorta di esotismo casalingo e però misterioso «sotto la lampada dello studio serale». D'altra parte, «i sottoscala, le cantine, gli angoli bui... L'infanzia non ha inventato niente di così esaltante né di così comodo che abitare un armadio o in una cuccia di cane».
È anche per questo che quando Fred, il giovane protagonista del romanzo, si imbatte in quella affiché all'uscita del collegio, in una sera di primavera, ne resta folgorato, «come quelle persone che rimangono zoppe per essere state colpite da un fulmine». Non ha capito, o meglio, non è ancora consapevole del fatto che «il meraviglioso comincia dal nostro vicino, l'esotismo è sulla porta di casa. Tutto il romanzesco sta in un muro confinante: è un divieto di superarlo, una sfida e una parete di mica, si può vedere al di là, ma s'interpone». Detto in altri, termini, «le mele del vicino non sono mai migliori di quelle dell'orto di famiglia, e però tutte la vite le trascorriamo illusi che sia così. Non crediamo ad altro che ai frutti della négresse!», a quei frutti del Congo che quando cercheremo di cogliere saranno già marciti e noi con loro. Non è un caso che Fred andrà in Africa e in Africa morirà.
I frutti del Congo uscì in Francia all'inizio degli anni Cinquanta, un po' in controtendenza rispetto al clima culturale del tempo, dov'era l'impegno a tener banco. Nato nel 1901, Vialatte per formazione e gusti faceva parte di quell'orizzonte letterario che era passato dall'orientalismo di Pierre Loti al mondo fantastico di Alain Fournier e del suo Le grand Meaulnes per trovare infine rifugio nel «fantastico sociale» di Pierre Mac Orlan, al quale il romanzo verrà dedicato. Mac Orlan era il cantore di Montmartre e dei suoi marinai senza barche e senza mare, degli avventurieri passivi che campavano sulle spalle di quelli attivi, disadattati della vita e inadatti alla vita, dell'eccentrico che si nasconde dietro l'ordinario... Traduttore dal tedesco, da Kafka a Nietzsche, Vialatte definiva il primo un grande umorista e già questo aiuta a delinearne il carattere. I frutti del Congo, del 1951, era il suo terzo romanzo, accolto come i primi due da una casa editrice prestigiosa qual era Gallimard e candidato quell'anno per il premio Goncourt. Gli venne preferito un libro sussiegoso di un autore sussiegoso, Le rivage des Syrtes di Julien Gracq, e da allora e per i successi vent'anni, cioè sino alla morte, Vialatte non pubblicò più romanzi. Continuò sì a scrivere, era un poligrafo indefesso, con tanto di rubriche fisse sui giornali, ma è come se quel rifiuto lo avesse vissuto in quanto offesa alla sua persona.
Nel suo Dictionnaire égoïste de la littérature française, Charles Dantzig definisce Vialatte «un interessantissimo esempio di posterità venuta a crearsi sotto i nostri occhi» e I frutti del Congo «un organetto di Barberia che non sa come fermarsi, strabordante di pittoresco perché per lui tutto era pittoresco. D'un tagliacarte faceva la scimitarra di Saladino». Il meglio, sembra suggerire Dantzig, sta altrove, ovvero in quella produzione quotidiana e in forma diaristica che proprio per il suo accumulo gli permetteva di fuggire dall'impasse del romanzo, che in quanto tale tende a delle scelte e quindi all'esclusione: «Si vedeva come un narratore delle Mille e una notte, era il cronista di Mille e un giorno. In lui la quantità è un elemento di qualità».
Ambientato in Bretagna, Finistère e dintorni, I frutti del Congo, magnificamente tradotto da Gabriella Bosco, è in effetti strabordante di fatti e gesta. Alla base c'è il mondo fatato dell'infanzia, fatato non in quanto tale, ma per la capacità propria dell'età di trasformare contadine in regine, acquitrini in isole misteriose, oggetti di scarso valore in tesori, adulti inoffensivi in geni del male e viceversa... Del resto, «che cos'era una vita senza mostri, una provincia senza satiro, una patria senza un bambino martire!». Il suo protagonista, Fred, ha un soprannome da fumetto, Nick Carter, una bombetta per cappello e vive in una mansarda da cui si vede tutta la città, il fiume e le isole in lontananza. «Viveva lì, tra i suoi fioretti, i ricordi di Lyautey, il Viaggio del centurione, le mandragore dell'arcipelago e il ciclista della marca Cyclamen in un'euforia da alpinista. La magia vive meglio sulle vette».
Fred è a capo di una banda di ragazzi che a colpi di zaini hanno sottratto ai loro rivali di collegio il possesso di quelle isole deserte ribattezzate «Libie» ed è da lì che una notte si vedono spuntare delle luci, dei fuochi fatui e poi un giorno si palesa una ragazza. Fuma come un maschio, sa raccontare storie, sa ballare, si chiama Dora: «È stata la nostra danza e il nostro mal di mare, è stata la trance della nostra giovinezza». Fred ne resterà ammaliato e avvinto.
Fin qui il romanzo ha i colori dell'infanzia e della sua magia, ma, come avverte Vialatte, «il destino passa nelle nostre vite con suole di feltro. Si nasconde senza mascherarsi. Quello che impedisce di identificarlo sono i gesti quotidiani, l'assenza di mistero e di cerimonia. Lo si riconosce solo una volta passato, quando la sua mano afferra il loro pugno di ragazzini sotto la loro mantellina da collegiali, con un gesto che lascerà dei segni». Il destino sono i grandi, ovvero la vita e i casi della vita, la gravità della vita stessa: «Fred conosceva dell'esistenza solo il lirismo, lo scherzo e la disperazione. Ne conosceva il tragico, ma ignorava il serio».
Il serio è che nulla è come appare e la provincia profonda e sonnacchiosa può rivelarsi un nido di vipere, colma di non detti come di delitti, di lutti come di odii
familiari, di squilibrati come di poveri disgraziati... E così la storia riparte, le Mille e una notte aggiungono ancora un giorno e c'è sempre un'appendice, come è naturale per ogni romanzo d'appendice che si rispetti...
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