"Facevo da autista a Ungaretti pur di immortalare la sua vita"

Con i suoi scatti Federico Garolla ha raccontato l'Italia del dopoguerra. A 85 anni ricorda l'epoca d'oro del fotogiornalismo. E boccia senza pietà i paparazzi di oggi

"Facevo da autista a Ungaretti pur di immortalare la sua vita"

Napoletano simpatico e bello, da giovane Federico Garolla era un omone di estrazione sociale nobile e di grande savoir faire. Ha appena compiuto 85 anni, il suo fascino ironico non l’ha ancora perduto e forse gli rimarrà intorno per sempre. Ci riceve nella sua casa milanese in zona Fiera, in uno di quei palazzi coi soffitti alti e gli ascensori antichi quanto i muri, che a salirci senti la cabina scricchiolare un po’. Sulla scrivania dello studio troneggia un modernissimo computer. Garolla oggi dispone di un sito in rete e di un immenso archivio digitale dei suoi scatti.

È proiettato nel futuro, maestro?
«Ma quale maestro, io sono una persona semplice. La ringrazio però per questa domanda, perché tengo moltissimo all’aiuto che mia figlia Isabella mi ha dato. La digitalizzazione dei miei scatti l’ha curata lei, ha catalogato e recuperato tutto offrendo così la possibilità di riscoprire il mio lavoro e le mie testimonianze dei cambiamenti socio-politici che ha vissuto il nostro Paese dal Dopoguerra».

Perché ha deciso di fare questo mestiere?
«Mio padre mi regalò una Condor Ferrania con la quale fotografavo luoghi e persone delle quali parlavo nei miei articoli. Negli anni Quaranta volevo fare il giornalista, raccontavo i fatti attraverso la scrittura e li corredavo con le foto. Un giorno Sandro Pallavicini, che dirigeva La Settimana Incom Carta per la quale avevo appena iniziato a collaborare, mi inviò un telegramma in cui diceva perentorio “Mandi anche suo rullino”. Ebbi così la conferma del fatto che la mia vera passione poteva trasformarsi in una professione. Fino a che mi resi conto che il fotogiornalismo pagava parecchio di più. E cambiai strada».

Come arrivò a Milano?
«Venni chiamato da Arrigo Benedetti, allora direttore dell’Europeo. Mi presentai e lui mi fece promettere che, se mi avesse assunto, avrei fatto solo il fotografo perché di giornalisti, disse, ne aveva già quattrocento. I reporter di livello allora erano pochi. Mi offrì uno stipendio alto, per quei tempi. Poi abbassò, ma mi mandò a Parigi a farmi le ossa a Paris Match. Ero lì con gli altri corrispondenti della stampa estera, e come per gli altri colleghi in quegli anni, il mio mestiere non riguardava tematiche specifiche, ma spaziava a trecentosessanta gradi per riempire i rotocalchi di fatti e facce delle personalità di allora. Spettacoli, cultura, politica, cronaca, tutto quanto».

Quel fotogiornalismo ritraeva un’Italia felice e in movimento continuo. Come si è trasformato il mondo, da allora?
«Le risponderò in napoletano: è ‘na mezza chiavica, questo mondo non mi piace più. Ma, facendo sempre parlare la mia napoletanità, le dico anche che la vita vale comunque la pena di essere vissuta».

Che cosa pensa dei fotografi di oggi?
«Già dalla metà degli anni Sessanta il mondo editoriale cambiò, le riviste diventarono più dozzinali e io presi un’altra direzione. Mi occupai di enogastronomia, illustravo rubriche di cucina e i volumi pubblicati da mia moglie Ada. E girai l’Italia per i grandi libri Mondadori e Rizzoli occupandomi di storia dell’arte. Il modo aggressivo di oggi non mi piace affatto. Non guardo nemmeno più i giornali illustrati, detesto il gossip e la violenza che ci trovo dentro e quando vedo Fabrizio Corona in televisione, cambio canale. Le mie foto erano racconti, in uno scatto bisognava dire tutto, era un modo per avvicinare la gente con sensibilità e gusto estetico. Mi piacciono invece Richard Avedon e Ugo Mulas, e il mio maestro è stato Federico Patellani: lui mi ha insegnato a chiedere di più».

A quale tra le sue immagini è più affezionato e perché?
«Un occhio attento si accorgerebbe che da Roma in giù la qualità del mio lavoro cambia. Dipendeva dal fatto che quando andavo verso sud sentivo “l’odore di casa”. Ad ogni modo il reportage che più ho amato è quello sull’infanzia abbandonata. Ho sempre provato particolare amore per i bambini e gli animali. Non ho mai fatto foto di cose brutte, anche quando inquadravo persone povere cercavo di evidenziarne la dignità. E mi commuovo sempre davanti a uno scatto che feci a una culla da dove spuntavano due pupille. Di fronte a quello sguardo mi sentivo colpevole, rimproverato da quegli occhi disperati di neonato. Mi sono sempre vergognato per quella violazione».

Lei ritrasse molti vip dell’epoca facendoli sempre risultare disinvolti e naturali. Qual è il suo segreto?
«Intanto non usavo mai la parola vip. Per me erano persone normali, al limite personalità, molti addirittura veri amici. Ho sempre avuto un dono: mi basta un quarto d’ora per capire la gente, e loro si rilassavano, diventavano se stessi. Io e il regista Pietro Germi ci adoravamo, a Ungaretti facevo da autista pur di seguirlo nelle sue giornate, mentre per Moravia non avevo una gran passione: si illuminava solo quando vedeva una donna, aveva tutti i difetti di uno snob borghese».

E come andò con Claudia Cardinale?
«Tra noi c’era un rapporto di estrema fiducia, lei è una donna affettuosissima e di fascino. Una volta dovetti dedicarmi a un lavoro sulle ceramiche, lei era libera e mi accompagnò. Chiacchierammo mentre scattavo e lei, diva, si fece fare una serie di foto in mezzo a piatti e vasi senza chiedermi nulla in cambio. Posso dirle che qualsiasi esperienza mi ha lasciato una ricchezza, la mia professione era importante, andavo in servizio anche con la febbre o carico di stanchezza se arrivavo da un viaggio. E non mi sono mai sentito povero».

Che cosa fotograferebbe oggi, lei che è «L’occhio del tempo»?
Tutto quello che ancora mi crea curiosità, fatti e cose che non conosco e che mi darebbero nuovi stimoli. Nessuna “paparazzata”, non le facevo nemmeno allora. Non rubavo immagini, e dalla fine degli anni Cinquanta ho ritratto circa ottocento personaggi. Sceglievo ambienti domestici, passeggiate per lo shopping, pause di lavoro sul set, le vacanze, i pranzi con la famiglia o, come nel caso di Virna Lisi, il giorno del matrimonio».

E se guardasse

indietro, come classificherebbe la sua carriera?
«In passato sono stato paragonato a Brassaï e Doisneau, due grandi. Questo è stato per me motivo d’orgoglio, ma io non so giudicare. Le mie foto parlano per me».

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