Teheran, 24 giugno 2009, qualche giorno dopo le elezioni che hanno dato vincente il presidente Mahmoud Ahmadinejad: la protesta dei cittadini, l’onda verde che scende in piazza alla luce del sole stupendo il mondo, si trasforma ogni sera dopo le 22. Quando fa buio in molti salgono sui tetti di case piatte, affacciati a terrazze che somigliano a quelle del nostro Sud. Vanno lì, a manifestare il loro dissenso con grida di rabbia e disperazione. In città c’è un giovane fotografo napoletano, Pietro Masturzo, classe 1980, che diventa testimone di quei momenti. Uno dei suoi scatti ha vinto l’edizione 2010 del «World Press Photo», la più prestigiosa competizione di fotogiornalismo che si ripete dal ’55 e che per questa edizione ha visto partecipare quasi seimila autori di 128 Paesi per oltre 100mila immagini inviate. Masturzo, a Milano per l’inaugurazione della mostra dedicata al premio (aperta alla Galleria Sozzani di corso Como 10 e in contemporanea a Roma, al Museo di Roma in Trastevere, fino al 6 giugno), racconta così quell’esperienza: «Ero ospite nell’appartamento di alcuni studenti iraniani. Quando ho sentito le grida ho chiesto spiegazioni e mi hanno raccontato dell’usanza di manifestare il dissenso urlando dalle palazzine, come si faceva nel 1979 contro lo Scià di Persia. È stato coinvolgente, vedevo la loro emozione, erano trent’anni che nessuno alzava la voce. Non c’erano solo donne, ma molti cittadini, anche se la partecipazione femminile e quella dei giovani (il 70 per cento della popolazione ha meno di trent’anni) ha avuto parte importante».
La foto vincente non è solo cronaca, c’è anche evocazione e sentimento, e finisce per diventare arte. Un nuovo modo di fare reportage?
«È una tendenza che si sta sviluppando e che supporta la pura informazione con uno stile che punta all’emotività. Esistono molti linguaggi, non sempre l’immagine cruda è efficace. I conflitti sono più facili da raccontare, più fotogenici, fanno vendere e io ho avuto qualche difficoltà a piazzare questo lavoro. Non ne faccio una questione morale, penso che servano entrambi gli approcci, anche se a volte si può raccontare la guerra senza mostrare il sangue. È giusto che si parli di etica in questo mestiere, ma non si possono tracciare linee definitive, dipende da troppi fattori. Noi autori non abbiamo il dovere di fotografare tutto o di censurarci o uniformarci a un metodo. La sola regola deve essere quella del rispetto per la persona e per la sua dignità».
Sente questa responsabilità?
«Sì. Molti iraniani mi hanno ringraziato, ma ero preoccupato che le donne ritratte non fossero riconosciute. Mi interessava raccontare il momento, non le persone. Loro avevano paura a farsi fotografare e grazie al supporto digitale ho potuto far vedere in anteprima il lavoro agli interessati: sono ripresi da lontano, i volti sfuocati, i palazzi non si riconoscono. Gli stessi manifestanti girarono video dai tetti per poi caricarli su Youtube, e Mir Hossein Mussavi (il candidato per l’opposizione al regime, ndr) mise le mie foto sul suo sito».
Come è riuscito a entrare in Iran in quel momento di tensione?
«Pianificavo il viaggio da tempo. Essendo un freelance non ho finanziamenti e, anche se ne avessi avuti, tendo a vivere con la gente per capire una società da dentro. Entrai con un visto turistico e solo due giorni dopo il mio arrivo fui arrestato mentre facevo foto a una manifestazione pre-elettorale. Mi furono sequestrati i primi servizi realizzati e mi rilasciarono perché dichiarai di essere un turista».
Lei è giovane sganciato dal circuito delle agenzie fotografiche. Quindi libero dalle logiche del mercato?
«Se stai con le grandi agenzie è più facile vendere perché puoi sfruttare i loro canali di distribuzione, ma devi sottostare a regole, ai loro tempi e modi. Oggi però la recessione economica ha cambiato tutto.
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