A chi entra nelle sale del Mart, insieme a tanti artisti, sembrerà così semplicemente, così naturalmente grande Pietro Gaudenzi da meritare la grande mostra che gli è dedicata. E invece non è così semplice. Gaudenzi è un grande, prolifico pittore, vittima di una rimozione. È stato dimenticato, travolto, cancellato. Della sua grandezza mi ero reso conto in una visita alla sua casa e al suo studio ad Anticoli Corrado, forse quarant'anni fa. Ma non si vedevano sue opere nei musei e nelle mostre. Sparito. La sua storia finisce, come quella di Sironi, con gli anni del Fascismo. E, come Sironi, continua anche negli anni successivi, come sommersa, soffocata, senza memoria della sua lunga e incorruttibile storia. Ma mentre Sironi sopravvive negli abissi della sua personale tragedia come pittore di regime, pur sublimato nella forma, Gaudenzi, che non aveva niente da rimproverarsi, sparisce dagli orizzonti della critica. Dal necrologio sull'Unità, il 24 dicembre 1955, dove è ricordato come «illustre artista», salvo i cataloghi di musei in cui è pubblicata una sua opera, occorre attendere il 2015 perché si riaffacci in bibliografia il suo nome grazie al ritrovamento dei cartoni per il Castello dei cavalieri di Rodi esposti al museo di Anticoli Corrado, a cura di Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli. Dall'ultima mostra senza catalogo del 1951, alla galleria De Ferrari di Genova, si arriva al 2016 perché un'opera di Gaudenzi sia esposta in una grande mostra, di rilievo nazionale, «Da Giotto a De Chirico: i tesori nascosti», al Musa di Salò, a cura dello scrivente, che vorrà poi il Trittico che vinse il Premio Cremona, autentico capolavoro popolare, nello spirito di Novecento di Bernardo Bertolucci, per la mostra su «Giotto e il Novecento», al Mart di Rovereto nel 2022.
Sessant'anni di silenzio assoluto e impenetrabile, non motivato che dalle mode, e non certo da alcuna concessione al Fascismo, inesistente, in qualunque soggetto, clima, declinazione psicologica di Gaudenzi. Il mio stupore, quando cominciai a incontrarlo e a collezionarlo, dopo l'emozionante visita ad Anticoli Corrado, dove l'atmosfera mi colpì più dell'opera, era proprio per questa disarmata purezza dei soggetti, prevalentemente legati alla sfera familiare, e senza alcuna ideologia, e per la coltissima educazione dello stile in una forma tutta italiana, ma con le malizie della grande pittura spagnola e francese, in un percorso indifferente e alieno da ogni concessione alle avanguardie e alle tendenze prevalenti, da «Valori plastici» al «Novecento», al «Realismo magico». E, nella vocazione ritrattistica così forte in lui, a mostri sacri come Boldini o Sargent.
Così, fino a oggi, con un insorgenza di lodevole interesse di marchands-amateurs e studiosi come Marco Fabio Apolloni e Gianluca Berardi, non è stato per Gaudenzi, e per un altro originale pittore riesumato dal vortice della storia e uscito di scena nel 1942, per riapparire soltanto nel 2004: Brancaleone da Romana. La vocazione di entrambi è certamente ritrattistica, con un'attenzione speciale per la sfera familiare e il mondo popolare; ma in Gaudenzi prevalgono il tempo dell'infanzia (a partire dal mirabile e careniano Lo specchio fino a Ruggero, La Famiglia, La moglie e il figlio sul prato e, soprattutto, lo stupore per l'avvertimento della pubertà nelle giovani donne (Prima comunione, Riflessioni, Il caffè) e per l'ingrediente giovinezza nella figlia Maria Candida (le ragazze con l'ombrellino), e per il momento, intimamente religioso, della maternità, evocato nei volti delle due mogli, sorelle, Candida e Augusta Toppi, fino alla beatificazione della prima (Il quadro interrotto). La visione della realtà familiare precede ogni concezione fascista, e la rende coerente con una tradizione ottocentesca.
Dopo le importanti personali del 1931, una alla milanese Galleria Pesaro e l'altra al Palazzo Ducale di Genova, nel 1936 espone alla Galleria Dedalo di Milano. Il prestigio e il rilievo di Gaudenzi nella pittura ufficiale (lui non essendolo) italiana sono testimoniati dalla sua presenza nelle principali rassegne italiane d'arte contemporanea - come le Biennali di Venezia (cui partecipa dal 1912 al 1942), la II Quadriennale e le sindacali - e il premio Cremona. Poi la guerra. Poi il buio.
Gaudenzi nasce a Genova nel 1880. Agli esordi un paesaggio degli inizi del secolo, nel quale al gusto simbolista del suo primo maestro Felice Del Santo si accompagna già a una sensibilità per la materia che indica la sua attenzione per Antonio Mancini, uno dei maestri che, arrivato a Roma nel 1904, Gaudenzi osserva con più attenzione. L'esito sembra una anticipazione di Morlotti. Tra i pittori che segue, fin da subito con esiti originali, vi sono, naturalmente, Sartorio e Spadini, ma anche Michetti e Carena. Roma per Gaudenzi significa anche Anticoli Corrado, il celebre paese meta di artisti da ogni parte d'Italia. L'esperienza della vita, i sentimenti, la verità delle emozioni prevalgono sopra il formalismo delle avanguardie. Sono gli anni dei manifesti futuristi. Nel 1911 un suo dipinto, I Priori, presentato alla Esposizione internazionale di Roma, è acquistato dal Comune per la Galleria Civica d'Arte Moderna (naturalmente non esposto).
Quattro anni dopo, a Milano, ottiene il premio Principe Umberto per la Deposizione (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna, dove non è esposto). Nel 1916 partecipa all'esposizione della Società amatori e cultori di Roma con il dipinto Affetti (Roma, Galleria comunale d'arte moderna e contemporanea, non esposto). Le opere di questo tempo, tutte sommerse, hanno una pittura densa, drammatica, dai grossi spessori cromatici, sotto l'influenza di Mancini e Michetti. Nel corso degli anni Venti, Gaudenzi, rimasto vedovo, è a Milano, dove dipinge notevoli ritratti fra i quali quelli di Wally Toscanini, della Signora Albanese, del Maresciallo Enrico Caviglia, con forti chiaroscuri, in stretto rapporto con la famiglia di Guido Rossi, industriale lombardo e suo principale collezionista, mentre i pastelli e i disegni, come Il Giglio, Luce, Purità, rivelano una sintesi luminosa di forma e colore, nella consapevole ripresa della tradizione classica italiana. Interessante che la fase successiva alla ricerca di Gaudenzi coincida con il matrimonio con la cognata, Augusta Toppi, da cui nacquero Iacopo e Maria Candida (ispiratrice di molte opere tarde). Sono anche gli anni della sua particolare riflessione sulla pittura del primo Quattrocento italiano - da Masaccio a Piero della Francesca, a Leonardo da Vinci - quando il suo stile si fa severo, soprattutto nei soggetti sacri. Così Gaudenzi ristabilisce il legame con Anticoli Corrado, dove si trasferisce contribuendo alla costituzione della locale Galleria d'arte moderna (1935).
Riappare in questa occasione al Mart anche una sua opera accademica, assolutamente originale, idealmente affine a Casorati: La mia scuola di Napoli. Capolavoro di questo momento maturo è il trittico Il Grano del 1940 per il premio Cremona, il cui classicismo rurale rivela un eccezionale rigore e una sorprendente originalità. È anche il tempo degli affreschi per il Castello del gran maestro dei cavalieri di Rodi, di cui i cartoni sopravvissuti sono stati recentemente studiati da Marco Fabio Apolloni. Qui Gaudenzi è altissimo. Ma l'essenza della sua arte si rispecchia nelle maternità di cui fu modella la moglie. Nella prima l'ispirazione è giottesca, con la potenza del corpo della madre che cinge, come in un momento di distrazione, il bambino mentre porta una ciotola con il latte, celando il volto, con una intuizione formale di straordinaria sintesi: una invenzione unica. Nell'altra maternità si rivede il volto dolcissimo della madre che stringe il bambino in fasce come un fagotto.
Sul fondo una prospettiva di case, di taglio squisitamente quattrocentesco, dove riecheggiano gli spazi incorrotti di Filippo Lippi e di Piero della Francesca. In entrambi i casi né citazionismo né accademia, ma un risalire spontaneo alla originalità delle forme, alla corrispondenza fra emozione e composizione: ciò che è proprio dell'arte vera.
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