Gina Lagorio approssimata senza difetto

«Càpita» raccoglie riflessioni e confessioni di disarmante sincerità

Ho visto per la prima volta Gina Lagorio a Castelporziano, durante una celebre lettura di poesia, nel 1979. Io ero agli esordi e lei una donna e una scrittrice matura. Nessuno mi ci presentò e non le parlai. Ma rimasi colpito dalla sua bellezza vitale e dalla snellezza nervosa delle sue gambe. Quando più tardi diventammo amici, non ho mai osato confessarle quella mia prima incancellabile impressione. Me ne ricordo ora, che lei non c’è più, e che arriva in libreria il suo ultimo lavoro (Càpita, Garzanti, pagg. 188, euro 14). Sembra incredibile, ma la vitalità e la bellezza che mi colpirono quella volta sono ancora lì, frementi nelle pagine di una ottantenne malata che racconta la sua malattia, il suo decadimento, i suoi presagi di fine. E che ricorda, perché no, d’aver avuto delle gambe niente male.
C’è qualcosa di tenero e dolce, ma anche qualcosa di duro e di eroico in questo libro. L’autrice non arretra davanti a nulla, l’indecenza dell’infermità, la nudità coatta, le padelle, lo shit day, niente la spaventa, per tutto trova il linguaggio adatto, coraggioso, tra capacità di ironia e capacità di cogliere il tragico della vita. Càpita. Càpita che il male ti rotoli addosso. E càpita che tu sappia rispondergli con dignità e desiderio, sino alla fine. Questo ha fatto Gina Lagorio. E per questo le va tributata ammirazione. C’è una libera, disarmante sincerità nel racconto che lei fa del proprio passare all’improvviso dall’universo della pienezza vitale a quello della malattia, della dipendenza dagli altri, dell’immobilità. Ci parla di sé e del proprio dramma, ma sembra non chiedere mai la nostra commiserazione, anzi persino aborrirla.
E, al contrario di certi malati che non sanno più parlare che della propria malattia, ecco che Gina Lagorio si apre a descrizioni, annotazioni, considerazioni su ciò che accade e si muove intorno a lei: vediamo in indimenticabili ritratti le sue infermiere, i suoi cari, le figlie, una nipotina dolcissima, ma anche un suo barbuto ammiratore in ospedale, e il parrucchiere Paolo di Bergamo con il suo orizzonte di vita così quieto. La vediamo alle terme di Pigna che si diletta di fronte agli uccellini che hanno fatto il nido in un grande vaso sul terrazzo immenso dell’albergo, e che nota come sia un bel ragazzo ad assisterla in piscina. Poi a Vinadio, a Valdieri, è una commozione antica, familiare, partigiana a toccarla. In altre pagine invece si descrive reattiva, sprezzante di fronte alla volgarità e alla stupidità del mondo, il reality show, il politically correct...
Da scrittrice non libresca, Gina Lagorio ricorda nei frammenti del suo diario di malata i volti dei poeti amici, Lello Baldini, l’amatissimo Sbarbaro, il maestro di cui fu discepola fedele, esegeta, editrice. Ricorda Giosue Carducci non per le sue poesie tonitruanti, ma per la sua verve amorosa, per le parole che seppe dedicare ad Annie Vivanti, lui carico d’anni e di gloria intento a promuovere una giovinetta alle sue prime prove. E confessa la propria ammirazione per Wojtyla, in nome forse del senso dostoevskiano della bellezza che quello straordinario Papa ebbe certo più forte di tanti intellettuali contemporanei.
Cara Gina, che libertà, che energia, che amore della vita sino alla fine. Ti ho letto spesso. Ma mai con la emozione di questa volta.

Se è vero che ogni essere umano rivela se stesso massimamente di fronte al dolore e alla morte, tu hai mostrato in queste pagine una grandezza fatta di stile, certo, ma anche di slanci, di sincerità, di spregiudicatezza, di vera forza morale. I tuoi lettori ti ringraziano. E ti augurano un paradiso dove ci sia il mare, e i desideri non si spengano.

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