Giro del mondo in otto viaggi per fare la corte a re Georges

Dalla sua Liegi agli Usa, dal cinema all'Italia, da Maigret al rifugio di Losanna. Tra fotografie, video e testi inediti

Giro del mondo in otto viaggi per fare la corte a re Georges

Un giorno gli chiesero, sperando di provocarlo, di farlo ribattere seccato all'insinuazione che lo avrebbe voluto un autore di serie B: «Lo sa che lei nei suoi romanzi usa circa duemila parole?». E lui rispose: «Così tante?».

Non era una battuta. Come ricordava qualche anno fa Ena Marchi, la sua ambasciatrice e interprete, in qualità di traduttrice, in Italia, chez Adelphi, la casa italiana di Georges Simenon, a lui interessavano soltanto le mots matière, le parole materia: «sottraeva, semplificava i costrutti grammaticali, eliminando tutti gli orpelli, tutti gli abbellimenti». Inoltre le «belle frasi dove tutte le sonorità e le sillabe vengono bene» gli facevano «orrore».

Anche lui stesso come persona, prima di mettersi a scrivere doveva ridursi ai minimi termini, liofilizzarsi in un semplice agglomerato sensoriale. In un'intervista del 30 novembre 1963 a Roger Stéphane, spiegò: «Cammino per svuotarmi di me stesso, cerco di liberarmi di tutte le piccole preoccupazioni della mia piccola vita di padre di famiglia, di marito, di cittadino. Insomma, cerco di svuotarmi per lasciare spazio a qualcos'altro. E poi, a un certo punto, può essere un odore... il più delle volte è un odore, magari passo accanto a un ciliegio, o a un pioppo, a una cosa qualsiasi, e sento un certo odore, può anche essere un mucchio di letame in una fattoria... e quell'odore fa scattare qualcosa, mi fa venire in mente un'immagine del passato, mi ricorda un altro mucchio di letame, un altro pioppo, un altro ciliegio...». Il letame come madeleine non è male, in effetti, poco romantico ma molto... penetrante.

La mostra Georges Simenon. Otto viaggi di un romanziere che si è aperta ieri a Bologna (Galleria Modernissima, fino all'8 febbraio 2026, a cura di Gian Luca Farinelli e di John Simenon, il figlio dell'autore belga) è anch'essa un percorso molto sensuale. Viaggi, fotografie, film, archivi pubblici e privati, letture individuali e letture pubbliche in vari punti d'ascolto della città. Le otto mete che scandiscono la narrazione come otto capitoli di un romanzo sono Liegi, la sua città natale; Parigi, la sua città-mondo; le peregrinazioni in giro per il globo in cui i molti luoghi diventano uno solo; Maigret, ovvero l'alter ego modificato per essere inviato sui luoghi del delitto; la dimensione di autore internazionale acquisita durante gli anni negli Stati Uniti; l'Italia in quanto Paese di un suo grande amico, Federico Fellini; il metodo di scrittura di cui si è detto; infine la seconda vita delle sue opere al cinema e in televisione, goduta nel rifugio di Losanna.

A proposito del proprio rapporto con il grande schermo, in un'altra intervista presente nel catalogo della mostra, a Frédéric Rossif e Jean Kerchbron, nel 1957, Simenon era tranchant: «Sono un pessimo giudice perché non ho mai visto i film tratti dalle mie opere, mai». E aggiungeva, a proposito dell'eventualità di lavorare espressamente per il cinema: «Non posso sacrificare un anno o due anni della mia attività per un film. Tanto più che un film è una cosa relativamente effimera. In un anno preferisco scrivere sei romanzi a cui tengo e che sono interamente opera mia piuttosto che mettermi a discutere con i produttori, con gli attori, eccetera». E ancora, smentendo le dicerie che lo volevano un tipo piuttosto altezzoso: «Io sono soprattutto un artigiano. Credo profondamente al mestiere. Ci ho messo quarant'anni a imparare il mio mestiere. Non ho più il tempo di imparare il mestiere di regista, così come non ho il tempo di imparare il mestiere di drammaturgo. È una cosa completamente diversa. Bisogna imparare tutto da zero. Ho cinquantaquattro anni. Non ho più il tempo di imparare una nuova professione».

Ma sbaglierebbe chi pensasse a un uomo geloso del proprio lavoro, a un padre possessivo incapace di allontanarsi dalle proprie creature. Disse infatti, sul rapporto con ogni suo libro: «Quindici giorni dopo averlo scritto smetto di crederci. Ci credo quando lo scrivo e ci credo subito dopo. Quindi devo rivederlo quando ci credo ancora ma mi sono comunque preso due, tre giorni di pausa, cinque giorni di pausa». Una volta che il romanzo prendeva il largo nel mare dell'editoria mondiale, Simenon fingeva di dimenticarsene, pronto però a riaccoglierlo come un figliol prodigo a distanza di qualche anno, «quando è stato tradotto in venticinque, trenta lingue e sono arrivate tutte le recensioni mia moglie mi mostra l'essenziale , e ho ricevuto le reazioni di ogni tipo dei lettori. E a quel punto sono loro che in un certo senso mi riportano il mio romanzo. Me lo riportano visto da loro, sentito da loro, e allora mi capita di ricominciare ad amarlo».

Era il 1963, il sessantenne Georges Simenon non aveva dimenticato quanto, da ragazzino, fosse fortemente intenzionato a fare lo scrittore sul serio, anche se iniziando con un libricino semiserio, una satira degli usi e costumi borghesi. Au pont des Arches, il suo esordio, uscì nel 1920, a firma Georges Sim. L'intraprendente diciassettenne, dopo aver incassato i «no» di tutti gli editori interpellati, si rivolse a un tale Bénard. Ne tirerò 1500 copie, a patto che tu trovi i primi 300 compratori, gli disse il furbacchione, preoccupato soltanto di coprire le spese di stampa e di ricavare qualche franco, giusto per il disturbo. E Georges li trovò, quei suoi primi trecento lettori.

Due anni dopo, ecco la prima (e ultima) sua sconfitta: Le bouton de col, scritto a quattro mani con l'amico Henri J. Moers, resta incompiuto. Il protagonista, il detective privato inglese Gom Gut è una parodia di Sherlock Holmes. Dalle sue ceneri nascerà, dopo molti tentativi, il Commissario Maigret.

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