Gnoli alla scoperta delle Americhe. Dai riti indiani alla triste New York

Fra 1960 e '62 l'artista viaggiò alla luce d'una pasoliniana polarità. L'influsso di Ben Shahn e la sperimentazione delle tecniche pittoriche

Gnoli alla scoperta delle Americhe. Dai riti indiani alla triste New York

Tra il 1960 e il 1962, l'artista Domenico Gnoli (Roma, 1933 - New York, 1970) attraversa un momento creativo di particolare interesse, tra il folklore dell'America Latina e l'alienazione di New York, colta alla luce di una pasoliniana polarità. Scrive e illustra il testo di Ancient Symbols of Pride and Valor in South America: sono immagini di un mondo primitivo e gioioso, pieno di umori ed euforia, nella sopravvivenza di tradizioni popolari reinterpretate da Gnoli con un leggero spirito goyesco.

Nel fervore del gioco anche la morte è prevista: «Quest'estate ho avuto l'opportunità di fare un lungo viaggio, attraverso l'America Latina. Cominciando dal Guatemala, ho percorso tutta la costa del Pacifico, fino all'Argentina, e seguendo poi la costa atlantica sono ritornato nel Centro America, dopo circa tre mesi e mezzo dalla mia partenza. (...) L'idea di far ricerche sui giochi tradizionali ancora esistenti, mi attirava perché così avrei potuto avere una visione approfondita dei paesi che dovevo visitare. La maggioranza dei giochi che avrei visto erano praticati dai popoli più poveri e primitivi: indiani mestizos sul Pacifico, negri sull'Atlantico, che per numerose ragioni non sono ancora venuti in contatto con la nostra civiltà. In tutti quei giochi, per quanto crudeli o violenti fossero, ero colpito dal coraggio dimostrato da quegli uomini che tentavano disperatamente di provare a se stessi e alle loro donne come secoli di frustrazione e miseria non avessero vinto il loro antico orgoglio. Infatti fra gli indiani chequa del Perù e della Bolivia, il concetto di mascolinità è spesso espresso in un costante, spietato amoreggiamento con la morte, che è il principale ingrediente del loro eccitamento».

Dall'altra parte di questo mondo vitale e antico stanno i tristi giochi dei bambini e i mesti abbracci degli innamorati in Central Park. Sono tanti e divisi, non c'è più lo spirito di aggregazione, il piacere della festa che tiene unite le popolazioni dell'America Latina nelle carrere, nelle corride, nell'ubriacatura del condor che deve affrontare il toro prima di essere liberato. Non ci sono più i miti. «L'apoteosi finale del condor è l'ultimo e nondimeno il più rappresentativo momento di tutto l'evento, perché il volatile è il simbolo della libertà delle Ande, sempre trionfante sulla forza bruta del toro».

Rimasti invece paurosamente soli, e prigionieri, a New York gli uomini guardano con malinconia il lago di Central Park, o si specchiano nell'acqua dalle loro piccole imbarcazioni. Panchine e solitudine sono il destino delle coppie, quando non accada di vegetare con le piante, come in Man Near a Tree. La tecnica esecutiva di queste chine è a fitto tratteggio e macchie, con forti contrasti chiaroscurali, secondo criteri che saranno subito adottati anche in pittura.

L'annullamento dell'uomo è poi nell'esaltazione di massa per le imprese spaziali. Le macchine, gli impianti, i collegamenti televisivi, i missili sono ora i veri protagonisti. Si osservi, in Glenn Boy Welcome Home, come alla singolarità e all'isolamento delle architetture a cupola come moschee corrisponda un muro uniforme di corpi senza identità. Carlo Bertelli ha osservato: «L'immobilità comincia a intaccare anche il mondo dell'illustratore. Il numero dodici della serie di Cape Canaveral, The Missiles (1962), è già apertamente dentro la metafisica, ed è una metafisica morandiana. Il gruppo in posa davanti al fotografo, così americano che un Ben Shahn non avrebbe desiderato di meglio, non fa che esaltare l'immobilità dell'immagine».

La vitalità del mondo sudamericano, la fisicità dell'uomo, l'esaltazione gioiosa della massa che si ritrova in un unico simbolo ritorna nella serie dedicata ai neri di Harlem, con un reportage dell'Apollo Theater per la rivista Show, del 1962. Gli spettatori si stringono in un groviglio di braccia e di volti, sono tutti la stessa gente, hanno tutti lo stesso cuore (Spectators). In Concert n. 1, vediamo l'orchestra e il cantante dal punto di vista di un palco di ultima galleria, da un loggione dove stanno, miti e sorridenti, due famiglie di colore concentrate nell'ascolto.

Un evidentissimo richiamo a Ben Shahn è nel gruppo degli Actors on the Stage. Attori, cantanti, spettatori sono gli ultimi rappresentanti e testimoni di un'umanità dai gesti semplici e dai sentimenti elementari, come in Women Folding Linen. Un'umanità che va scomparendo travolta dalla civiltà industriale, e intanto si avvia a uscire anche dai quadri di Gnoli nei quali era appena entrata. Se infatti i disegni, le incisioni e le acquetinte, sempre di carattere più illustrativo e narrativo, mettono in campo corpi che si intrecciano nell'esaltazione degli istinti o che stanno soli nei gesti larghi e lenti del lavoro, i dipinti privilegiano gli oggetti, le cose inanimate.

Già in alcuni esiti di questa fase, a partire dal 1960, in pittura (ma, episodicamente, anche nel disegno) Gnoli mostra di aver colto nel segno, limitandosi a descrivere utensili e oggetti qualsiasi di cui restituisce l'impronta essenziale, disponendoli frontalmente come architetture monumentali contro un fondo uniforme e mosso.

Ma va osservato che di fronte alle figure umane, nelle incisioni, sulle forme solide e ben piantate, ad esempio in Man with Fish, come per porvi un filtro, Gnoli dispone col favore della lastra una vera e propria ragnatela di segni e di graffi che incrinano la salda struttura della figura e attutiscono il risalto fortemente chiaroscurale dell'immagine contro il fondo.

L'influenza di Ben Shahn resiste e si fa sentire fino al 1963 e travasa anche nella pittura. Gnoli si avvia verso un sempre più compiuto rigore formale.

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