Goli Otok, l'isola dei dannati stalinisti. E il mostro comunista che divora se stesso

Il romanzo di Goran Markovic annoda un filo di finzione alla matassa della Storia

Goli Otok, l'isola dei dannati stalinisti. E il mostro comunista che divora se stesso

All'indomani della Seconda guerra mondiale, quella che, rispetto a come ci si poneva geograficamente, veniva chiamata ora Europa centrale, ora Europa orientale, cominciò il suo riassetto nell'orbita sovietica. Per ironia della storia, un conflitto che aveva avuto inizio per difendere la Polonia dalla Germania nazista si chiudeva con la Polonia, già precedentemente smembrata dal patto russo-tedesco Molotov-Ribbentrop, consegnata senza fiatare al giogo sovietico, così come la Cecoslovacchia, l'Ungheria, la Romania, la Bulgaria... Winston Churchill, che era un maestro di parole più che di strategia politica, avrebbe di lì a poco coniato l'espressione «cortina di ferro» per definire ciò che sull'Est Europa, terza e ultima definizione geografica di quei territori, si stava abbassando ed era sempre dello stesso Churchill la brutale constatazione di aver ucciso «il porco sbagliato», alludendo al maiale nazifascista sacrificato in favore del maiale comunista...

Sempre di Churchill era una terza frase, usata per la questione balcanica, o più semplicemente per quel regno di Jugoslavia nato a fatica con il dissolversi dell'impero austroungarico dopo la Prima guerra mondiale. Due anni dopo lo scoppio della Seconda, la dinastia lì regnante dei Karadordevic, nella persona di Pietro II, aveva trovato rifugio presso la corona inglese e formalmente erano lei e i suoi seguaci che Londra aveva promesso di riportare al trono e al potere a guerra finita quanto vittoriosa. Nel frattempo tuttavia si era avuta anche una resistenza partigiana a guida e con l'appoggio comunista, quella di Iosip Broz, detto Tito, e Churchill aveva cominciato a chiedersi se avesse ancora senso continuare ad appoggiare la guerriglia monarchica o se buttarla a mare e preferirle l'opzione titina. Questo significava però che un domani Belgrado sarebbe stata repubblicana e comunista e che insomma l'Oriente sarebbe arrivato a lambire l'Occidente. Alle rimostranze di chi, essendone stato testimone sul campo, riteneva quell'opzione totalitaria nei metodi così come nell'ideologia, il premier britannico si era limitato a replicare, brillantemente va da sé, che per quanto lo riguardava non aveva nessuna voglia di andare a vivere un domani in Jugoslavia e che consigliava ai suoi critici di fare altrettanto...

Nell'ottobre del 1945, mentre a Norimberga si processavano i criminali nazisti, Tito era intanto diventato il presidente della neonata Repubblica federale jugoslava che, con il trattato di pace di Parigi due anni dopo, si sarebbe allargata a quasi tutta l'Istria e a gran parte della Venezia-Giulia e sarebbe entrata nel Kominform, l'organizzazione dei partiti comunisti dell'Urss e di tutti i Paesi dell'Est Europa, ma anche dell'Italia e della Francia. Ancora un anno e, nel 1948, Tito sarebbe entrato in rotta di collisione con Stalin, in quanto sostenitore di una via nazionale al socialismo, ed espulso dal Kominform per «deviazionismo ideologico». A Belgrado e per tutto il Paese si scatenò allora la caccia agli stalinisti jugoslavi, gli stessi che, sino al giorno prima, non erano stati altro che comunisti jugoslavi: esecuzioni, arresti, finti processi e vere condanne e la costruzione fra le tante altre prigioni, di un'intera isola come gulag, quella di Goli Otok.

E gli inglesi, che fine hanno fatto, si chiederà il lettore? Hanno naturalmente riconosciuto la Repubblica jugoslava e mandato un loro ambasciatore nella capitale, ma con il solito miscuglio di supponenza, cinismo e dilettantismo continuano dalla madrepatria a tessere la tela di improbabili se non improponibili ritorni monarchici: dopo tutto Pietro II se ne sta ancora in esilio a Londra... È in quest'ottica che l'MI6, ovvero la sua rete di spionaggio verso l'estero, ha spedito, con la qualifica ufficiale di addetto stampa dell'ambasciata di Belgrado, un agente: si chiama Lawrence Durrell, ha già fatto qualcosa del genere in maniera superficiale in Egitto, di professione fa lo scrittore.

Durrell è uno dei protagonisti di Il trio di Belgrado (Bottega Errante Edizioni, pagg. 222, euro 17, traduzione di Enrico Davanzo), il bel romanzo che Goran Markovic ambienta in quel 1948 così tragico e destinato a segnare in negativo la storia della Jugoslavia: come dice l'autore, quella di Goli Otok è «la più grande tragedia avvenuta dopo la Seconda guerra mondiale in Jugoslavia, un Paese che in quegli anni aveva smesso di esistere».

Durrell è anche quello su cui Markovic ha narrativamente più lavorato, nel senso che ha supplito all'assenza di una documentazione ufficiale d'archivio sulla sua attività spionistica, con una sua ricostruzione che, per quanto non accertata, è verosimile. Trentaseienne all'epoca, inglese sui generis, nato in India e vissuto per molti anni altrove, piccolo di statura, un metro e sessanta appena, non brutto, ma stranamente infantile nel suo insieme, un adulto con le misure e le fattezze di un bambino, già sposato e divorziato, e arrivato a Belgrado con la nuova compagna e di lì a poco moglie, Eve, appena ventenne, più famigerato per via delle sue intemperanze sessuali e alcoliche e le sue amicizie pericolose (Henry Miller, Anaïs Nin...) che famoso per i suoi libri, Durrell fece la spia con la stessa irruenza e disprezzo per le regole ostentate nella vita pubblica e privata. Si innamorerà della sua insegnante di lingue, cercherà di farla evadere di prigione, verrà arrestato più volte e infine espulso, ma quel suo modo di agire, convulso, inconcludente e tuttavia cavalleresco, lascia la sua striscia luminosa all'interno di un clima cupo e desolante, dove tradimento, corruzione e violenza sono all'ordine del giorno...

Costruito attraverso lettere private, pagine di diario, verbali di polizia, articoli di giornale, conversazioni riservate e messaggi in codice decrittati, Il trio di Belgrado racconta soprattutto un clima, un'ideologia e un'epoca. Sono gli anni in cui la Jugoslavia si riscopre forzatamente quanto interamente comunista, ma è un comunismo che divora sé stesso nel suo andare in cerca di deviazionisti, lo stalinismo, ovvero la fede a la fedeltà all'Urss che improvvisamente diventa trotskismo, così come trotskisti diventano i titini agli occhi di Mosca... Ne consegue un apparato repressivo dove non è sufficiente il carcere e la pena, ma il fine ultimo è la rieducazione, ovvero l'annichilimento della persona, il rinnegamento di tutto ciò in cui si è creduto e che ha dato un senso alla propria vita. Nulla è in grado di resistergli: amicizie, amori, legami familiari.

Tutto questo, naturalmente, se non è arrivato prima il colpo di pistola alla nuca o il nodo scorsoio del boia di turno...

Sotto questo aspetto, Il trio di Belgrado resta una testimonianza agghiacciante di fino a quale punto possa spingersi per paura, sadismo, volontà di potenza, furore ideologico, l'abiezione umana.

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