La famiglia è la chiave della sicurezza». È questo il titolo della sessione principale del Budapest demograpich summit, un forum inaugurato nel 2015 da Victor Orbán e che si tiene nella capitale ungherese con cadenza biennale. Giorgia Meloni interverrà questa mattina, in un panel con il primo ministro Orbán e i presidenti di Ungheria e Bulgaria, Katalin Novák e Rumen Radev. Prima, in apertura dei lavori, un coro di bambini e a seguire la benedizione delle massime autorità delle quattro chiese storiche dell’Ungheria.
Un appuntamento, insomma, all’insegna di quel «Dio, patria e famiglia» che in più occasioni Meloni ha rivendicato non solo come «motto mazziniano» ma anche come «slogan di modernità», perché - è la sua convinzione «significa difendere l’identità europea». Uno dei fronti più cari alla destra teocon e che in campagna elettorale è stato tra i principali cavalli di battaglia della leader di Fratelli d’Italia. Che, forse, ha scelto di accettare l’invito recapitatole da Novák a fine agosto durante la sua visita in Italia non solo per l’ottimo rapporto personale che lega le due, ma anche in vista della lunga corsa alle « elezioni Europee del 9 giugno. Nonostante manchino ancora nove mesi, infatti, la partita è già entrata nel vivo.
Non a caso, se Meloni domani sarà a Budapest seduta allo stesso tavolo con Orbán, domenica Matteo Salvini salirà sul palco di Pontida in compagnia di Marine Le Pen, altra leader di peso della destra europea.
La visita di oggi in Ungheria, dunque, sarà l’occasione per tornare a parlare a quel pezzo di elettorato tradizionalmente conservatore, ma anche il momento in cui Meloni potrebbe spiegare come si muoverà il governo per affrontare il problema della denatalità, un tema su cui la premier ha molto insistito in questi mesi parlando più volte di «inverno demografico». Un fronte, peraltro, su cui Meloni ha promesso un intervento importante proprio nella legge di Bilancio, che già da qualche settimana è oggetto di un acceso confronto all’interno della maggioranza.
Ma il faccia a faccia con Orbán, in programma oggi alle 13 e 50 - nella sede del governo ungherese - ha anche una forte valenza politica, visto che in questi quasi dodici mesi passati a Palazzo Chigi Meloni non aveva mai incontrato il primo ministro ungherese. Non solo le sue posizioni ultra-sovraniste, ma anche il suo posizionamento filo-russo dopo l’invasione di Mosca in Ucraina ne fanno infatti un alleato piuttosto scomodo. Il voto di giugno, però, impone di muoversi a 360 gradi. Anche perché le ultime proiezioni sul Parlamento europeo che verrà continuano a dire chiaramente che non ci sono alternative allo schema della «maggioranza Ursula». Secondo l’aggregatore di sondaggi Europe Elects, il Ppe conterebbe 160 seggi, Socialisti & democratici 146, i liberali di Renew Europe 89, Ecr 82 e Identità e democrazia 73. Per quanto sia tecnicamente quasi impossibile che i Conservatori e riformisti possano essere scavalcati numericamente da Id, è evidente che anche a Bruxelles la corsa a destra è senza esclusione di colpi. Con Meloni che è presidente del partito di Ecr e Salvini che insieme al Rassemblement national di Le Pen e all’ultra-destra di Afd milita nel gruppo di Identità e democrazia.
È in questo quadro che Meloni non può che guardare con interesse ai 12 eurodeputati che conta oggi Fidesz, il partito fondato da Orbán. Dopo la rumorosa rottura con il Ppe nel 2021, la formazione nazionalista del primo ministro ungherese non aderisce infatti a nessuna famiglia politica. E non è un segreto che siano in corso contatti con Ecr per un suo eventuale ingresso. Insomma, è plausibile pensare che oggi il tema possa essere affrontato.
D’altra parte, lo scenario di un’adesione di Fidesz a Ecr permetterebbe ai Conservatori non solo di «staccare» numericamente Identità e democrazia, ma anche di sperare in un sorpasso su Renew Europe, la famiglia dei liberali a trazione macroniana. E in quest’ottica dentro Ecr stanno valutando anche un «piano B», ma necessariamente alternativo a Orbán. Sono infatti in corso interlocuzioni anche con i nazionalisti rumeni di Aur, partito fondato nel 2019 e che quindi oggi non ha rappresentati al Parlamento Ue. I sondaggi interni quotano l’Alleanza per l’unione dei romeni al 25-26%, con la possibilità di eleggere otto o nove eurodeputati.
Ma Fidesz e Aur sono tra loro incompatibili a causa del braccio di ferro tra Ungheria e Romania in corso da
tempo sulla Transilvania. Uno scontro tra nazionalismi senza esclusione di colpi se Aur accusa neanche troppo velatamente Orbán di «voler occupare e annettere territori» secondo «gli stessi principi terroristici di Vladimir Putin».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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