Graffignano, alla riscoperta di sapori antichi

Nel paese della Tuscia è possibile gustare vere rarità come i «ferlenghi»

Renato Mastronardi

Se ti spingi verso i confini della parte orientale della provincia di Viterbo (autostrada A1 fino al casello di Attingano), quando questi lambiscono quelli della vicina Umbria, approderai, quasi improvvisamente a Graffignano che guarda, dall’alto, quasi tutta la Valle Teverina. Attorno al 1200 il paese si chiamava Grappignanum. Ed è questo un particolare di non poco conto perché il toponimo fa subito pensare al grappolo (dall’etimo longobardo «grapa») anche se, da parte di altri eruditi, viene avanzata l’ipotesi che, invece, il toponimo derivi dalla radice «grapfo», anch’essa longobarda ma riferita all’uncino, un’arma molto diffusa nel Medio Evo. Tuttavia, stando alla testimonianza dell’anziano parroco, forse Graffignano discende da Carfinianum, nel senso che fu, sin dall’inizio della sua storia, un dominio di un signorotto di nome Carfinius. Di certo, storicamente parlando, risulta che tra i suoi primi fondatori ci furono i Conti da Persano. Il fatto è confermato dai fondi registrati nell’archivio comunale di Viterbo. Però, subito dopo, il dominio della zona passò alla famiglia Baglioni di Orvieto. La quale, per ovvi motivi politici e strategici, venne contestata, con inevitabili squilli di tromba, tambureggiare di tamburi e cozzare d’alabarde, dai nobili viterbesi che stabilizzarono le relazioni con Graffignano - siamo tra IX ed il XIV secolo - favorendo un matrimonio di convenienza tra la viterbese donna Guitta Gatti e Simone Baglioni. Da questo momento, Graffignano, pur soffrendo episodi di faziosa intolleranza, condivise, nel bene e nel male, le vicende e le alterne fortune della capitale della Tuscia, fino a quando, nel secolo XVII, il castello passò a Domitilla Cesi Baglioni. Una donna illuminata che, tra l’altro, importò a Graffignano il culto, ancora vivissimo, del romanissimo San Filippo Neri («Pippo Bono»).
Da vedere. A prima vista sorprende la mole imponente del Castello medievale, eretto e fortificato a difesa e guardia delle vie d’accesso ai centri abitati dell’entroterra. Il maniero, di forma rettangolare, è munito di una torre cilindrica alta circa 20 metri. Tutto intorno al castello si schierano le cosiddette «case di dentro», le case del centro storico, con le caratteristiche scale esterne e le cantine che, una volta, erano stalle. Non meno interessante è la visita alla Parrocchiale. Di aspetto moderno ma che, all’interno, conserva la copia del celebre dipinto di Guido Reni raffigurante Filippo Neri, santo tutelare del luogo, un busto ligneo dorato (XVIII secolo) con reliquie del Santo, un quadro del Settecento di San Carlo Borromeo, anche esso veneratissimo in locoe infine un crocefisso ligneo di mirabile fattura.
Da mangiare e da bere. Da queste parti da tempo è passato il mito della rivoluzione industriale e oggi si registra un ritorno a quella che era la coltura dei campi. Da parte soprattutto dei giovani. Accanto a ciò e quasi di conseguenza un forte incremento dell’agriturismo e una salutare riscoperta della gastronomia locale che sembrava dimenticata se non addirittura scomparsa.

Riecco quindi, sulle tavole di Graffignano, la bruschetta e i fagioli al piatto; le ombrichelle e i garganelli ai porcini; le pappardelle al cinghiale; l’abbacchio alla brace e il maialino sardo - alla maniera, cioè, dei pastori sardi che ancora stanziano nel territorio -. Ma, se si è veramente fortunati si possono gustare i «ferlenghi» alla griglia, simili al finocchio selvatico, lontano parente dei «garganelli» (carciofi selezionati), ma di più curiosa golosità.

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