L'Aja che scavalca l’Onu, i tempi del processo a Israele: cosa può succedere ora

La Corte Internazionale di Giustizia ha agito oggi a guisa di Consiglio di Sicurezza. Tuttavia nessun cessate-il-fuoco è stato imposto: un vantaggio per Tel Aviv e una (mezza vittoria) per i BRICS

L'Aja che scavalca l’Onu, i tempi del processo a Israele: cosa può succedere ora
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Una lunga fase di decadenza, quella in cui sono finite le Nazioni Unite. La posizione della principale organizzazione internazionale mondiale, infatti, ora rischia di essere ulteriormente aggravata dal presunto scandalo legata all'Unrwa: l'agenzia per i rifugiati palestinesi viene, infatti, accusata da Israele per il presunto coinvolgimento di alcuni suoi dipendenti negli attacchi del 7 ottobre scorso. Sulla base di informazioni fornite da parte israeliana, il commissario generale dell'Unrwa, Philippe Lazzarini, ha annunciato l'avvio di un'indagine per far luce sulla vicenda. Ma di fronte all'Onu che perde credibilità di conflitto in conflitto, oggi è la Corte internazionale di giustizia dell'Aja che si è presa la briga di decidere il da farsi. Non gli eserciti, non il Consiglio di Sicurezza, non coalizioni di Stati, ma un tribunale internazionale.

La "rivoluzione" dell'Aja

Quello che, infatti, è sfuggito ai più, è che oggi all'Aja non si è deciso tanto su Israele ma sulla conduzione del conflitto. Ricapitoliamo: secondo la giudice americana Joan Donoghue, alcuni degli atti commessi dalle forze israeliane a Gaza rientrerebbero, infatti, nel novero delle violazioni della convenzione sul genocidio. L'iter, dunque, prosegue, ma si tratta di indagini lunghe che finiranno alle calende greche: ci vorranno anni di indagini per spiegare se e quando-al netto della pietas che qualsiasi essere umano dovrebbe provare per i civili che muoiono- Israele ha commesso "atti di genocidio".

Ma ciò che ha determinato una piccola grande rivoluzione copernicana è il fatto che oggi l'Alta Corte ha ordinato a Israele di adottare tutte le misure per prevenire il "genocidio" dei palestinesi. Con tanto di voce in capitolo sulle misure di emergenza da imporre al governo di Natanyahu: garantire che le sue forze armate non commettano un genocidio, più aiuti per i palestinesi, l'obbligo di prevenire e punire l'incitamento diretto e pubblico a commettere un vero genocidio, agevolare l'ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia, in particolare la fornitura dei servizi di base e dell'assistenza necessaria.

L'Aja non ha imposto il cessate il fuoco

A Tel Aviv è stato dato un mese di tempo. I giudici hanno anche espresso grave preoccupazione per la sorte degli ostaggi in mano ad Hamas e chiesto il loro rilascio immediato. La Corte ha poi chiesto poi a Israele di tornare all'Aja tra trenta giorni per presentare le prove dell'impegno volto ad impedire un genocidio nella Striscia di Gaza. I giudici hanno ordinato l'adozione di "misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell'assistenza umanitaria di cui i palestinesi hanno urgente bisogno per affrontare le avverse condizioni di vita affrontate".

Ma l'elemento più importante in questo decalogo di diritti e doveri è che, sebbene ora Israele si trovi in una condizione di "osservato speciale", dall'Aja non è stato richiesto un cessate il fuoco. Il che appare sia un controsenso, visto il livore sollevato dal deferimento, e in un certo senso anche un punto a favore di Tel Aviv a cui si consente di proseguire con le operazioni. Ma il diritto internazionale è tutt'altro che lineare.

Un blitz dei BRICS all'Aja

Era proprio al cessate il fuoco che, invece, miravano i promotori dell'iniziativa in Sudafrica. Il ministro degli Esteri sudafricano ritiene che sarebbe necessario affinché Israele rispetti la sentenza della Corte, dichiarandosi quasi deluso. "Credo - ha sottolineato - che Israele dovrebbe occuparsi di come conduce la sua ricerca degli ostaggi e dei militanti di Hamas che hanno compiuto gli attacchi del 7 ottobre". Il ministro ha ringraziato i giudici della Corte "per aver affrontato rapidamente la questione" e ha avvertito gli Stati che hanno sostenuto Israele che potrebbero trovarsi coinvolti nel caso man mano che il procedimento si sviluppa.

Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha definito la sentenza una "vittoria per il diritto internazionale, per i diritti umani e soprattutto per la giustizia": ma la vittoria di chi? Al momento solo una vittoria dei BRICS che, a mezzo Sudafrica, sono riusciti nell'impresa di affibbiare in via

preventiva a Israele l'etichetta di nazione rea di genocidio, al di là di cosa diranno le indagini. Un'operazione che, con una certa malizia, sembra avere un unico grande sponsor, che di certo non risiede a Città del Capo.

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