L'assemblea generale dell'Onu è in corso nelle stesse ore in cui piovono bombe con un'intensità senza precedenti sul Libano meridionale, oltre che sul nord di Israele. Centinaia di morti, migliaia di feriti e fughe di massa che intasano le strade libanesi in direzione nord. C'è qualcosa di stonato nei discorsi a partire da quello del presidente uscente degli Stati Uniti che gioca anche una tesa partita elettorale interna - che invitano a confidare nella diplomazia prima che una guerra feroce sfugga di mano ai contendenti. Da quasi un anno il segretario di Stato Usa Antony Blinken si consuma le scarpe in Medio Oriente alla ricerca di un compromesso impossibile. La tragica sensazione è che anche al Palazzo di Vetro di New York si stia giocando poco più della solita verbosa commedia. Si è sentito auspicare una nuova Yalta, un ipotetico grande tavolo negoziale che veda riunite le principali potenze mondiali per risolvere la crisi mediorientale. La logica sarebbe la seguente: poiché nulla produce inseguire soluzioni parziali, è necessario puntare a una via d'uscita complessiva. Ora o mai più, visti i serissimi rischi per la pace mondiale. Al di là dei nobili principii, è questa un'ipotesi che non tiene conto della realtà sul terreno. La guerra che Israele sta combattendo da quasi un anno è per la vita o per la morte. Hamas, che l'ha scatenata da Gaza con un proditorio massacro e sequestro di civili israeliani lo scorso 7 ottobre, non vuole niente di meno che la cancellazione dello Stato ebraico, la «Palestina dal fiume al mare»: significa dieci milioni di israeliani morti ammazzati o cacciati dalle loro case. Lo stesso proclama Hezbollah che combatte (e sta perdendo) questa guerra con le armi dei suoi mandanti iraniani. È questo il punto: in linea ipotetica si potrà arrivare a fermare i combattimenti, ma sarà soltanto una tregua, perché i nemici di Israele rimarranno votati alla sua distruzione. All'estirpazione del cancro sionista, come descrivono il concetto a Teheran.
C'è un motivo se dal 1948 non c'è pace in Medio Oriente, ed è il rifiuto di una parte importante del mondo musulmano di accettare l'esistenza stessa di uno Stato ebraico. Settantasei anni di guerre inframmezzati da sforzi diplomatici che hanno prodotto risultati parziali, sempre vanificati dagli estremisti. Il momento migliore, gli accordi di Oslo del 1993, ha prodotto la nascita dell'Autonomia palestinese e una speranza di coesistenza pacifica con Israele. Ma nessuna delle due parti ha mai davvero voluto risolvere la questione in modo definitivo: nel 1997 Yasser Arafat lo dimostrò rifiutando l'offerta di costruire uno Stato palestinese sul 97% dei territori occupati e preferendo alimentare una guerriglia infinita, mentre Israele non ha mai rinunciato a costruire nuovi insediamenti ebraici su terre arabe.
Lo sforzo più coraggioso fu compiuto da Ariel Sharon nel 2005, facendo sgombrare undicimila coloni israeliani dalla Striscia di Gaza per restituirla ai palestinesi: quel gesto di pace fu ripagato dai gazawi con un plebiscito pro Hamas, il cui programma era «guerra santa ai sionisti fino alla vittoria». Da Gaza è venuta la scintilla sanguinosa dell'incendio che aveva lo scopo primario di impedire un'intesa tra Israele e i Paesi musulmani moderati, che è arrivato fino in Libano e minaccia di coinvolgere l'Iran.
Un Iran alleato strettissimo non solo di tutte le milizie ostili a Israele, ma anche e soprattutto di Cina e Russia nella guerra mondiale a pezzi che divampa anche in Ucraina. Dall'altra parte c'è un Netanyahu che estende la guerra scommettendo sul ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Davvero si può credere a un serio negoziato con simili protagonisti?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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