
Vilhelm Hammershøi, danese di Copenaghen, vissuto fra il 1864 e il 1916, oggi considerato un protagonista appartato ma fondamentale dell'arte di fine Ottocento e del primo quindicennio del XX secolo, pittore lento e meticoloso, non ha prodotto molti dipinti. Distruggeva i disegni preparatori. E non ha mai fatto incisioni: solo oli su tela. Ma nell'unico carboncino sopravvissuto, uno studio di nudo realizzato quando faceva l'accademia, a vent'anni, nel 1884, la figura - già allora - è vista di spalle.
Sarà la sua cifra. Vilhelm Hammershøi, maestro solitario, raro e enigmatico, è conosciuto come «l'artista che dipingeva le donne di spalle». E siamo venuti fino a Rovigo per vedere, di fronte, le sue opere dal vivo: a Palazzo Roverella apre oggi la prima grande mostra retrospettiva in Italia, e l'unica da tempo a livello internazionale: Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l'Italia (fino al 29 giugno). Curata da Paolo Bolpagni, espone cento opere. Di cui una ventina - che per la sua ristretta produzione sono tante - di Vilhelm Hammershøi. Se sapete chi è, correrete qui, perché l'occasione è imperdibile. Se non lo conoscete, è il motivo per cui dovete venirci.
Aggettivi per descrivere i dipinti di Vilhelm Hammershøi. Severi. Cupi. Malinconici. Desolati. Silenziosi. Spogli. (Nevrastenici?).
Qualcuno ha paragonato l'arte di Hammershøi a quella di Edward Hopper, poco distante nel tempo e molto nella geografia. In realtà non c'entrano nulla uno con l'altro. In Hopper c'è solitudine e angoscia. In Hammershøi ci sono segreti e purezza. Uno inquieta, l'altro ipnotizza.
Danese di Copenaghen, chiuso e taciturno, tutt'altro che un artista maledetto, anzi borghese come i suoi interni, molto famoso nel suo tempo, in cui trovò ammiratori e collezionisti generosi (tra i quali, come spesso accade nella storia dell'arte recente, un ricco dentista), è stato di fatto dimenticato dalla critica e dal pubblico per quasi tutto il '900, anche se è stato ricordato dal cinema, che spesso ha citato i suoi interni, soprattutto da Carl Theodor Dreyer (e qui in mezzo alla sala principale c'è un video che proietta alcuni spezzoni del suo Gertrud del 1964), da Ingmar Bergman e forse - chissà - da Woody Allen in Interiors. Poi, all'improvviso, verso gli anni '80-90 del secolo scorso, Hammershøi è tornato sulla scena: i musei lo cercano e il mercato se lo contende (le sue quotazioni negli ultimi cinque-sei anni hanno conosciuto una impennata, con aumenti esponenziali osservabili addirittura di mese in mese).
Bene. Ma chi è Hammershøi? È un pittore difficile da collocare, come capita a tutti i più grandi. Attraversa il Simbolismo, ma non è per niente simbolista. Vive l'epoca delle avanguardie, ma non ha nulla a che fare con le avanguardie. Tranquillo e malinconico, Hammershøi fa a sé. Non lascia niente di scritto (ha rilasciato una sola intervista in tutta la vita), dipinge quasi solo interni, di solito casa sua, la modella è quasi sempre sua moglie; se fa qualche ritratto è quello di parenti e amici intimi («Non mi piacerebbe fare il ritrattista: non mi interessa che sconosciuti vengano a trovarmi e mi commissionino il loro ritratto. Per dipingerli, servirebbe che li conoscessi bene», lasciò detto) e lavora sempre per sottrazione. Nei suoi quadri toglie, asciuga, taglia: pochi oggetti (una stufa, una sedia, un divano...) e ancora meno soggetti; una luce che entra da finestre che non vediamo, presenze di persone che non sentiamo, un'atmosfera strana, come se il quadro raccontasse qualcosa che sta per succedere o che è appena successo, ma nessuno sa cosa. E pochi colori («Sono assolutamente convinto che un dipinto ha il miglior risultato, in termini cromatici, se ci sono meno colori»). E fece così tutta la sua breve vita (morì a 51 anni) in una carriera che non conosce svolte. Hammershøi raggiunse subito uno stile riconoscibile e poi è sempre rimasto uguale a se stesso. Ed è la sua forza.
È il motivo per cui la mostra, che mette a confronto i capolavori di Hammershøi con opere di importanti artisti a lui contemporanei (belgi, francesi e molti italiani), non procede in ordine cronologico ma per temi. Che poi - a parte poche e veloci incursioni nel ritratto e nei paesaggi - si riducono a due. Interni domestici senza personaggi e interni domestici con personaggi. Sembra patologico, e forse lo è. Ma l'arte non è mai qualcosa di normale.
Alcuni quadri-capolavoro. La porta bianca (1888), dove il protagonista, e non è un controsenso, è il vuoto. Interno con divano (1907), che emana una sensazione di segreto, di non detto. Figura di donna che legge (1900), dove la donna che legge - un topos - è la moglie Ida Ilsted, la sua modella prediletta, che poi sarà colpita da una grave malattia mentale. Serata in salotto (1904), che è un interno notturno dove le quattro figure sedute al tavolo sono poco più che fantasmi. Riposo (1905) che arriva dal Musée d'Orsay di Parigi ed è una meraviglia; e qualcuno ha visto nella donna di spalle la stessa che, di fronte, ritrae Pellizza da Volpedo nel suo Ricordo di un dolore (1889). Interno di chiesa (1902), che è l'unico suo dipinto italiano: realizzato a Santo Stefano Rotondo al Celio, a Roma.
E soprattutto Doppio ritratto dell'artista e della moglie visti attraverso lo specchio (1912), dove c'è tutto Hammershøi: lui che ci guarda, lei di spalle perché lui stesso non può conoscerla, la loro casa spoglia, August Strindberg e il teatro scandinavo, il freddo e il silenzio, l'incomunicabilità, Kierkegaard (che peraltro era cugino del suo maestro di disegno in accademia), la severità del luteranesimo, e anche la poesia di Reiner Maria Rilke, il poeta tedesco che un giorno vide un quadro di Hammershøi (un ritratto di Ida) e volle conoscerlo a tutti i costi; va da lui e stanno insieme un pomeriggio. Sembra che non si siano detti nulla. Ma siamo sicuri che non ce n'era bisogno. Ognuno dei due era entrato nell'opera dell'altro. Il resto era superfluo.
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