"Ho desiderato la vendetta. Oggi posso dire ho perdonato"

La moglie del commissario ucciso: "Sono partita dal punto più basso, ma mi sento fortunata, non cambierei mai la mia vita, è stata ricca"

"Ho desiderato la vendetta. Oggi posso dire ho perdonato"

Capra. Calabresi. Milite. C'è un cognome per ogni pezzo della sua vita, anche se la storia l'avrebbe voluta solo «la vedova Calabresi», moglie del commissario ucciso il 17 maggio 1972 sotto casa, in via Cherubini a Milano. Gemma aveva 25 anni, sposata da neanche 3, due figli - Mario, 2 anni e 4 mesi e Paolo, 11 mesi - ed era incinta di 3 mesi del terzo figlio che chiamerà Luigi. Ma Gemma dice che «la memoria ha le gambe». Cammina, va avanti, tanto da arrivare a farle dire oggi, 50 anni dopo, di aver perdonato. Tutti. Chi ha premuto il grilletto, chi ha deciso che fosse giusto uccidere, chi ha guidato, chi ha contribuito a creare quel clima di odio diventato la sentenza di morte per suo marito. Lo ha detto, lo ha fatto e lo ha scritto in un libro, «La crepa e la luce», dove ripercorre il suo cammino verso il perdono. Lo ha raccontato anche qualche giorno fa a Viareggio, sul palco degli «Incontri del Principe di Piemonte» condotti da Stefano Zurlo, dove l'abbiamo incontrata. La signora Gemma oggi ha 75 anni, 6 nipoti, due occhi chiari come la verità sempre cercata, annodata a quella cravatta bianca che suo marito si era cambiato prima di uscire di casa. «È il simbolo della mia purezza», le aveva detto salutandola sulla porta prima di essere freddato in strada. Parole che per lei sono state il suo testamento spirituale.

Cosa significa dover riaprire questa porta?

«Non è una riapertura ma un cerchio che si chiude della mia vita. Una vita certamente molto difficile, faticosa, dove io, a un certo punto, ho deciso di intraprendere il percorso di perdono, arrivato comunque solo dopo aver avuto giustizia e verità, fondamentali non solo per la vita di un paese e della democrazia ma anche per la vita di una famiglia e di un individuo».

Come fosse un doppio binario.

«Quando ho cominciato a parlare di perdono alcuni mi chiedevano come mai allora ti costituisci parte civile? Sono due cose che viaggiano insieme ma completamente diverse. Una non esclude l'altra. La verità e la giustizia devono esserci. Ti senti protetta dallo Stato, ti senti che qualcuno pensa a te, a cercare di capire cosa è successo. Poi, se vuoi, fai il tuo cammino di perdono. La mia è stata una scelta personale, non ho detto ai miei figli dovete. Io faccio, loro mi vedono. Pur essendo a buon punto, avendo voltato pagina e avendo già fatto molte cose, non hanno fatto il mio percorso. Però loro mi vogliono così».

In che senso?

«Quando ho avuto momenti di sconforto, mi dicevano dove è finita la tua fede, il tuo ottimismo?. Sono contenti di questa mia scelta. Spero che un giorno ci arrivino anche loro, perdonare dà pace. È una grande forza, non è una debolezza».

È stato un percorso fatto soprattutto per loro?

«Direi per entrambi. Se una mamma è arrabbiata, se una mamma odia, i figli saranno arrabbiati, odieranno. Guardi le vedove di mafia, arrabbiatissime, fanno in modo che i figli vendichino il padre. Non è amore questo. Io volevo crescere persone con la gioia di vivere. Persone che credessero negli altri, perché l'odio e il rancore ti divorano tutto, non ti fanno vedere più niente di bello nella vita. Eppure il bello c'è ancora».

Subito dopo l'omicidio però aveva il desiderio di vendetta.

«La sera andavo volentieri a letto perché in quei 10 minuti, tra il Tavor e il sonno, facevo le mie fantasie. Immaginavo di comprarmi una parrucca, di infiltrarmi in quei posti dove sapevo che li avrei trovati e lì, un giorno, qualcuno vantandosi, avrebbe detto l'ho ammazzato io Calabresi. Allora avrei tirato fuori dalla borsa la pistola e gli avrei sparato. Il desiderio di vendetta mi faceva stare bene. O almeno pensavo. In realtà stavo malissimo...»

Non ne aveva mai parlato?

«Mai. Mai finchè non ho scritto questo libro. E sa perché l'ho detto? Intanto per sincerità e trasparenza, e poi perché volevo far capire che sono partita dal punto più basso, ma che si può. Si può amare ancora la vita anche dopo il dolore. Si può credere ancora negli altri anche dopo il tradimento. Si può cambiare giudizio anche sulle persone che vedevi come tutto il male del mondo. Volevo restituire questa speranza perché io avuto moltissimo, anche dagli sconosciuti. Solidarietà, lettere, affetto, preghiere, regali per i bambini non mi sono mai sentita sola...»

E nello stesso momento, anche tanto odio.

«Certo. Ma era di più l'amore dell'odio. Solo che la minoranza gridava forte. Per me è stato fondamentale, dopo anni, fare la scoperta che un uomo non è solo un assassino».

Come è successo?

«Durante uno dei processi mi ha colpito la tenerezza di uno degli imputati verso suo figlio. Non sentivo le parole, ma la sensazione era proprio che dicesse vai via non stare qui. Lo accarezzava, se lo è abbracciato. Ho pensato che avrei fatto la stessa cosa. Questa scena ha smosso qualcosa in me, ma l'ho trattenuta dentro per anni».

Finché?

«Finché un giorno un mio alunno mi dirà ma maestra perché quando uno muore tutti ne parlano bene? Ma muoiono solo quelli bravi? Gli ho detto di no, ma che è giusto ricordare l'esempio positivo di una persona, i suoi valori e che sicuramente nella misericordia di Dio non saremmo giudicati per il male commesso ma per il bene. Poi esco dalla classe e penso che anche gli assassini di Gigi, che io avevo sempre chiamato assassini con 10 s con tutto il livore di cui ero capace, non erano solo quello. Anche loro avranno camminato, penso. Sono diventati padri, e lo avevo visto, saranno buoni amici, avranno aiutato gli altri».

Un pensiero non facile...

«Sarà stato lo Spirito Santo che me li ha fatti vedere così. Mi sono chiesta che diritto avevo di relegare una persona all'atto peggiore commesso durante la vita? Gli ho ridato la dignità di persona. Gli ho reso la sua vita con tutte le sue sfaccettature. Ho fatto il contrario di quello che facevano i terroristi. Disumanizzavano le persone, le rendevano un simbolo, una cosa, per poi colpirla. Come non ho relegato Luigi Calabresi a quella mattina, fermo, lì, e noi a piangersi addosso, a dire che sfortunati siamo, che ingiustizia, che cattiveria, ma l'ho fatto camminare con noi».

Come ha scritto nel libro la memoria ha le gambe.

«Le gambe sì... e allo stesso modo hanno camminato anche loro. Li ho visti diversi. E per me questa scoperta è stata la svolta».

E come si è sentita?

«Mi ha fatto sentire bene. Ed ho cominciato il mio percorso di perdono che avevo già iniziato, ma continuavo a scivolare indietro. Bastava un articolo di giornale, una scritta sui muri, un documentario televisivo, per farmi prendere dalla rabbia».

Nel libro racconta che il giorno in cui viene ucciso Luigi Calabresi lei si siede sul divano e fa una preghiera per la famiglia degli assassini.

«Ecco lì ho sentito forte la presenza di Dio. All'improvviso un'assurda pace interiore e una grande forza. Quello non poteva essere farina del mio sacco, a 25 anni, dopo che mi avevano appena ucciso l'uomo che adoravo, no... è stato come se qualcuno mi indicasse la strada. Nonostante tutto, dopo, ho avuto le mie fantasie di vendetta. Però quando ero proprio disperata mi riaffiorava quel pensiero...»

La vita poi l'ha messa davanti a un altro lutto, quello del suo secondo marito Tonino Milite, entrato nella vostra famiglia anni dopo in punta di piedi...

«E ci ha riportato il colore, in tutti i sensi perché era anche un pittore. Ha sempre accettato che venissi chiamata la vedova Calabresi. Un giorno ha detto piacere, io sono il fantasma... Quando è morto ho provato una grande rabbia».

Anche con Lui lassù?

«Tantissimo, il mio parroco mi ha detto arrabbiati, grida a Lui tutta la tua rabbia, tutta la tua tristezza vedrai che ti aiuterà».

E non ha mai pensato perchè proprio a me?

«Quello no. Perché agli altri, allora? Io mi ritengo fortunata. Non cambierei mai la mia vita. È stata intensa, ricca di incontri, di scambi, di amore. Doveva essere così. Credo di essere una persona migliore oggi e, diversamente, non avrei fatto un cammino di questo tipo».

Com'era Luigi Calabresi?

«Era un uomo pieno di vita, di interessi. Leggeva moltissimo, le poesie di Trilussa ai bambini per farli addormentare. Era romano, simpatico, un po' sullo stile Alberto Sordi. Amava il cinema e poi ballare... Abbiamo ballato tantissimo, la samba. Poi amava cucinare, la pizza, faceva la crostata e con la pasta avanzata scriveva Gi e Ge».

E come commissario?

«Dialogava tantissimo con i giovani, si dilungava a parlare con i ragazzi che fermava dopo le manifestazioni di piazza per capire il perché di tanta rabbia, di tanta violenza. Chiamava anche i genitori quando erano giovanissimi e veniva rimproverato dal suo dirigente perché non era tenuto a farlo. Era il più giovane dell'ufficio politico. Tutto quel potere che hanno inventato non c'era... hanno costruito a tavolino un personaggio che non esisteva, con tanto odio. Solo che una bugia detta una volta resta tale. Una bugia detta un milione di volte diventa una verità. Combattere contro questo è stato peggio che combattere contro la morte stessa. Ho dedicato la vita per riabilitarlo. Quando sono cominciati i processi ho detto ragazzi, riabiliteremo papà con il nostro comportamento. Oggi il paese guarda a Luigi Calabresi come a un onesto servitore dello stato, a una persona di valori, a un padre meraviglioso».

I processi, tanti e lunghissimi, il suo calvario, come dice lei.

«Quando uscivamo non sapevamo più se fosse mattina o pomeriggio, primavera o inverno. Si perdeva la cognizione del tempo».

Venivano anche i ragazzi?

«Era obbligatorio, a meno di non portare un certificato medico, perchè si erano costituiti parte civile».

Avevano appena 16, 17 e 18 anni.

«E ognuno con il suo modo di esprimere il dolore. Luigi con la rabbia, Paolo nel silenzio, Mario con le parole alla ricerca della verità.

E in casa come avete vissuto quei giorni?

«Non eravamo angelici, ci sfogavamo tra di noi, però con gli altri non doveva mai mancare il rispetto. In aula dovevamo salutare tutti, anche gli imputati. Erano le mie regole».

La Francia ha appena negato l'estradizione a Pietrostefani, condannato come mandante con Sofri, che cosa ne pensa?

«Quando all'inizio hanno detto che avevano accettato, ho provato un senso di grande soddisfazione e di giustizia perché finalmente la Francia accettava le sentenze italiane. Ma non riuscivo a gioire per Pietrostefani che è anziano e molto molto malato. L'idea che un uomo così possa finire i suoi anni in carcere cosa mi dava in più? Niente. Forse se fosse stato 30 anni fa sarebbe stata un'altra cosa»

I suoi figli Luigi e Paolo, dopo anche lei, avete incontrato Marino che le ha chiesto il perdono. Suo figlio Mario poi ha incontrato Pietrostefani. Bompressi e Sofri l'hanno mai cercata?

«No. E noi neppure».

«Perdono», lei ne parla come un ponte...

«Lo vedo così, da una parte io cerco di darlo e dall'altra c'è chi cammina per riceverlo. Dio va da tutti. All'inizio avevo pensato che fosse venuto solo da me perché ero la vittima, ma la vita mi ha fatto capire che non è così».

E dall'altra parte del suo ponte chi ha camminato?

«Due delle persone sicuramente sì. Io penso che anche gli altri se avessero voluto avrebbero incontrato Dio. Ma c'è chi abbraccia e chi no, chi ha i suoi tempi, chi lo rifiuta. Non nego che mi farebbe piacere. Ma sarei felice soprattutto per i miei figli. Io il mio cammino l'ho fatto».

Se lei non fosse stata religiosa avrebbe potuto perdonare?

«Credo di sì, credo nella forza dell'umanità, anche se io dietro ci vedo sempre la mano di Dio».

Nel libro si firma Calabresi Milite. E nel sottotitolo c'è scritto Sulla strada del perdono...

«Ora sono arrivata. E prego per loro».

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