Inizia con passione ma finisce in compassione. È l'amore, bellezza

Esce "I primaverili" di Luca Ricci. Una relazione improbabile è il preludio... a cosa? Forse alla vita

Inizia con passione ma finisce in compassione. È l'amore, bellezza

Lo scrittore Luca Ricci sta affrontando una serie di sfide di cui non si può non tenere conto. Decisamente prolifico, è autore di molti racconti (ha grandi capacità tecniche a proposito di questa forma espressiva, in genere malvoluta dall'editoria soprattutto per motivi commerciali), romanzi e saggistica narrativa. Sfida: negli ultimi quattro o cinque anni ha dato alle stampe quattro opere ispirate ciascuna a una stagione dell'anno. Gli autunnali, Gli estivi, Gli invernali e, adesso, I primaverili (La nave di Teseo, pagg. 256, euro 19). L'ultimo nato della tetralogia a sua volta contiene un'altra sfida, andando palesemente contro a una serie di obiezioni che la critica recente muove da alcuni decenni agli autori di fiction: c'è un io narrante, che fa lo scrittore, che ha il blocco dello scrittore, che parla del mondo letterario e editoriale in termini critici o di invettiva, che si muove nello spazio ristretto di una grande città italiana, quasi sempre Milano o Roma (in questo caso Roma), che è nevrotico, che si rivoltola su sé stesso in problematiche esistenziali e amorose immerse in una mediocre malinconia, da uomo inetto incapace perfino di vivere in modo grandioso il suo scacco esistenziale, che ha una madre rompipalle. E c'è una coprotagonista che è una donna irrisolta, colta, borghese, bella, elegante, manco a dirlo nevrotica anche lei, la quale per tutto il libro, che copre giorno per giorno l'arco dell'intera stagione, non fa che tirarlo scemo.

Viste le premesse, quei critici direbbero che è sempre la solita minestra, un déja vu, anzi un déja lu. Ma al diavolo i critici, il romanzo scorre via e non annoia, forse perché non scade mai nella pretenziosità. È la cronaca di una relazione fra il protagonista e Simonetta, libraia part time, intercalata dall'incapacità del primo di scrivere un altro romanzo, dovendo egli barcamenarsi fra trite sceneggiature, collaborazioni giornalistiche marchettare, convegni inutili, colleghi tromboni, presentazioni routinarie della sua opera.

«L'amore polverizza tutto quello che credevamo di sapere di noi. Niente come l'amore è capace di fare riverberare il nulla che siamo». È uno fra i tanti aforismi che troviamo disseminati come sassolini bianchi sul sentiero di questa storia di amore. O forse di non amore, se per amore si intende la possibilità e la capacità di soddisfare la reciproca passione. Tuttavia, tra passione e compassione non c'è che una sillaba, e in quella sillaba c'è la fine di ogni storia. Numerosi sono i riferimenti, dichiarati, al Frammento di un discorso amoroso di Roland Barthes, un classico tentativo di decifrare pulsioni e comportamenti umani su un tema tra i più dibattuti e sfuggenti, insieme alla morte, cui è irrimediabilmente abbinato, perlomeno nella modalità dell'eros. Simonetta è una donna parecchio più anziana dell'io narrante. Divorziata. Molto sicura di sé, è il contraltare della madre dello scrittore (quello del romanzo, non quello dell'autore del romanzo, anche se non si sa mai). Senonché, ha un'idea tutta sua di come un rapporto vada tenuto insieme. Fa venire in mente una frase di Checov: «Se temete la solitudine, non sposatevi». Potrebbe essere parafrasata così: «Se temete la solitudine, non fate l'amore».

«Non cercare la purezza dove non puoi trovarla, ragazzo» dice allo scrittore tale Alberto Gittani, vecchio intellettuale disincantato e abituale frequentatore dei giardini di Castel Sant'Angelo, dove i due si trovano spesso. Gittani parla da vecchio saggio, è il lato razionale dell'io narrante; lo riconduce alla realtà a suon di paradossi.

Del resto la felice cifra stilistica di Ricci è l'ironia, e forse più ancora il sarcasmo, visto il tono beffardo con cui descrive la fauna degli addetti ai lavori cinematografici, giornalistici, editoriali. Non sappiamo quanto la cosa possa toccare il pubblico medio, al quale delle beghe fra intellettualoidi potrà interessare fino a un certo punto. Però certe classificazioni sono davvero spassose e trovano il loro apice nella visone dei gironi infernali dove sono detenuti gli scrittori in espiazione dei loro peccati. Ma qui il Virgilio è Bukowski.

E non è un caso se troviamo l'abbondante rievocazione di Luciano Bianciardi e di Ennio Flaiano, due maestri di ferocia e di lucidità. Anzi, di Flaiano, in una digressione, si immagina addirittura il ritorno sulla terra, con chiaro riferimento a Un marziano a Roma. Così abbiamo anche il riscontro di quanto fosse attuale quel suo piccolo capolavoro di settant'anni fa. Nel frattempo, mentre dal letargo invernale, ovvio rimando al letargo dei sentimenti, si va verso quell'estate che viene definita «una ricreazione», si vive l'atmosfera di un preambolo. Preambolo a cosa, ci chiediamo; alla vita vera, si chiede l'autore? E bisogna pure trovare un senso in quel rapporto stagionale fra due esseri umani così diversi. Nelle loro vaghe peregrinazioni paraturistiche su e giù per i sette colli. Essere felici insieme è un ossimoro? Un'altra metafora attraversa tutta la vicenda: lo scrittore ha bisogno di una poltrona, ma non trova mai quella giusta. Forse non siamo proprio fatti per la pace dei sensi.

Fra le righe di questo

romanzo si diffonde sempre il rumore dell'intelligenza. Ricci sfida la banalità così come un equilibrista sfida la forza di gravità. Lo guardiamo aspettando che cada, ma lui ci stupisce continuando a volteggiare, leggero.

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