La Banca d'Italia conosceva tutti i rischi del Monte Paschi

Gli ispettori inviati nel 2010 scoprirono alcune ombre nei bilanci. Diedero il via libera, anche se non convinti

La Banca d'Italia conosceva tutti i rischi del Monte Paschi

La Banca d'Italia sapeva. Non tutto, certo, ma in via Nazionale già nel 2010 avevano capito che qualcosa, anzi più di qualcosa, non quadrava sul fronte dei derivati inventati a Siena. E gli ispettori, catapultati nella città del Palio dall'11 maggio al 6 agosto 2010 avevano chiuso la loro relazione con parole pesanti: «L'accertamento, mirato a valutare i rischi finanziari e di liquidità, ha fatto emergere risultanze parzialmente sfavorevoli». Se non è una bocciatura della politica creativa adottata dall'avvocato Giuseppe Mussari per salvare Mps, che aveva in gola il boccone indigeribile di Antonveneta, poco ci manca. Di più: il Sole24Ore ha portato a galla ieri un audit interno all'istituto di credito che aveva a sua volta individuato alcune criticità, come si dice in gergo, nella gestione del Monte. Ed è facile pensare che gli 007 di via Nazionale abbiano cominciato la loro ispezione proprio prendendo come bussola le carte fornite dal Mps, secondo una buona abitudine della Banca d'Italia.

Dunque, l'allarme era suonato non una ma due volte: prima la relazione interna alla banca, datata 26 novembre 2009, poi l'ispezione chiusa nell'agosto seguente. Diventa così difficile condividere in toto quel che i vertici della Banca d'Italia hanno ripetuto in questi giorni di passione: «Non sapevamo»; «Siena ci ha ingannato», «Siena ci ha nascosto i documenti». Certo, le clausole riservate dell'accordo raggiunto dal Monte con Nomura per Alexandria, il derivato che secondo alcune stime potrebbe costare alla banca guidata da Fabrizio Viola 220 milioni, erano custodite in fondo ad un cassetto dove poi sono state recuperate da Fabrizio Viola e Alessandro Profumo. Ma i tecnici del Monte e poi quelli della Banca d'Italia si erano avvicinati al cuore del problema. E avevano individuato con una certa chiarezza le sofferenze occultate dietro la sontuosa facciata di Rocca Salimbeni. Invece, inspiegabilmente, non successe nulla: non ci furono richieste supplementari di chiarimento, non ci furono tantomeno sanzioni - a quanto se ne sa - o interventi di altro genere per spingere la banca senese a bloccare quel che appariva già allora, due anni e mezzo fa, un azzardo. Una serie di operazioni sospette, ancora più sospette dopo l'esplosione della crisi finanziaria mondiale, il tracollo di celebri banche americane, la riflessione innescata in tutto il mondo sulla corsa temeraria ai derivati.
Ed è proprio il boomerang dei derivati il tema infiammato su cui si erano concentrati gli ispettori che in ultima analisi rispondevano ad Anna Maria Tarantola, oggi presidente Rai ma all'epoca, nella Banca d'Italia di Mario Draghi, punto di riferimento dell'area vigilanza e dal 20 gennaio 2009 vicedirettore generale.

Gli inviati di via Nazionale - come rivela il rapporto pubblicato da Linkiesta - avevano individuato «profili di rischio non adeguatamente controllati» in relazione alle operazioni avviate con Nomura e Deutsche Bank. Stiamo parlando esattamente delle pietre dello scandalo, Alexandria e Santorini, altro prodotto dal nome suggestivo come l'isola greca e dal risultato altrettanto disastroso, costruito appunto con i tedeschi di Deutsche: oggi Santorini, in una drammatica esplosione delle perdite, potrebbe pesare per ben 367 milioni sui conti traballanti di Mps.

In ogni caso il 29 ottobre 2010 il verbale, firmato dal capo ispettore Vincenzo Cantarella, fu notificato a Mussari cui furono concessi i trenta giorni canonici per rispondere alle osservazioni e alla bacchettate. Quel che è successo dopo non è chiaro, o forse lo è fin troppo. Mps andò avanti per la sua strada. Giù per il precipizio.

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