La destra imperfetta al bivio sulla cultura

Il dibattito con il ministro Sangiuliano, Giuli e Buttafuoco disegna un nuovo perimetro La necessità di tornare all’universale diventa una sorta di ribellione al globale

La destra imperfetta al bivio sulla cultura
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Sul lungotevere alberato che porta a Castel Sant’Angelo c’è una lunga fila di banchi di legno dove si vendono vecchi libri. Ti fermi per cercare qualche edizione dell’Orlando Furioso da aggiungere a un’inutile collezione e quello che trovi è invece un piccolo tesoro, miracoli che accadono quando il passato rimbalza sul presente e ti sposta qualche stagione in avanti nel tempo. È il domani che chiama. È la prima edizione italiana, pubblicata da Corbaccio nel 1931, di L’uomo e la macchina: contributo a una filosofia della vita. L’autore è Oswald Spengler. Il libro è in ottime condizioni e te lo vendono a 53 euro. Non finirà mai in nota spese. La macchina, per Spengler, è il Dio detronizzato. È un vuoto da riempire. È il figlio che si ribella al padre e prende il posto del nonno. È lo stato d’animo di un uomo che da lontano vede il tramonto.
Non bisogna però lasciarsi ingannare dal pessimismo di Spengler. Quelli sono anni in cui tanti riflettono sul futuro dell’umano e sul destino della tecnica. Ortega y Gasset sei anni prima aveva segnato un confine sulla ribellione delle masse, Miguel de Unamuno svelava la realtà dei mulini a vento di Don Chisciotte, Ernst Jünger vedeva la supremazia crescente dell’immaginario sulla realtà e Antonio Gramsci vedeva già la fine del fordismo e ciò che ci sarebbe stato dopo.
È stolto questo tempo dove i morti raccontano quello che verrà e i vivi si rintanano nelle cose morte, in pensieri inariditi, in fantasmi di mondi caduti, in polemiche riesumate solo per paura di vedere cosa c’è davanti. È quello che pensi camminando senza meta per i sentieri di Atreju, mentre intorno si susseguono parole a parole, con tutti indaffarati a vomitare sulla rete virtuale frammenti di pane quotidiano, tra un’improvvisata di Giambruno e uno sbadiglio di Renzi sulla giustizia, come se questo flusso fosse davvero la rappresentazione della realtà. E invece a sentirlo oggi, da qui, è solo rumore di fondo. È questo il gioco da cui la cultura di destra deve spaccare, perché è quello che ti impongono gli altri. La soluzione è sparigliare, stupire e stupefare, lasciandosi alle spalle le cancrene del Novecento, senza accettare la sfida su terreni aridi, con la solita storia di egemonie da scardinare, perché le cose si fanno, non si rivendicano. Qualcosa da questo punto di vista forse sta cambiando. Si è capito, un po’ alla volta, anche qui a Atreju, che la destra sta cercando un nuovo immaginario e non si forma in contrapposizione con i santuari della sinistra. Non è uno scontro di «santi», i miei, i tuoi, quelli sacri e quelli dannati, i maledetti e gli innominabili. La cultura di destra non si riconosce per antitesi e non ha statue e cattedrali da abbattere. Questa è un’ossessione puritana e giacobina. È il fervore dei «giusti», quelli che di mestiere si illudono di redimere la storia, con la triste speranza alla fine della cura di riuscire finalmente a ibernarla o mummificarla. Non ci sono mai riusciti.
La destra qui a Atreju è invece, per fortuna, imperfetta, tanto che si sente vicina alle inquietudini di Mishima o di Pasolini. Non rincorre il paradiso, ma si interroga sulla fragilità di questa esistenza disincarnata. A che punto è l’umano? Questa ansia la avverti anche nelle parole di un Buttafuoco odi un Giuli, quando davanti al ministro Sangiuliano, si ritrovano a parlare dello stato di salute della cultura di destra. È la difesa per l’uomo, inteso come umano, per quello che è, con i suoi difetti, le sue paure, fragile per carne e terra, per un destino senza senso apparente, ma con la necessità di aggrapparsi a qualcosa di infinito, senza il bisogno di chiamarlo Dio. Tutto questo si può sintetizzare come la necessità di ritrovare l’universale, quel concetto umano e terreno tanto caro al Rinascimento. L’universale, per questa destra, è una sorta di ribellione al globale.
I due concetti non coincidono.

Il globale disincarna e toglie all’umano ogni angolo, ogni spigolatura, ogni concretezza. L’universale cerca il comune denominatore nelle differenze, senza cancellarle, senza appiattirle, ma riconoscendo nell’io il tu e il noi. L’universale è solo il migliore dei mondi possibili.
Vittorio Macioce.

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