Dieci segretari in 15 anni e milioni di voti persi: il Pd resta inchiodato al passato

Non c'è pace tra le fila del Partito Democratico a sei giorni dalle primarie che decreteranno il nuovo segretario nazionale, in un movimento che non riesce mai a farsi i conti allo specchio

Dieci segretari in 15 anni e milioni di voti persi: il Pd resta inchiodato al passato

Se militanti e osservatori esterni non fossero ormai abituati ad assistere a svariate esilaranti sceneggiate di un certo tipo, a qualcuno potrebbe fare una certa impressione quello che sta capitando in questi giorni al Pd. Gli ultimi momenti di campagna elettorale per designare il prossimo segretario del Partito Democratico hanno il sapore di un film ampiamente già visto: una pellicola che potrebbe prendere a prestito il titolo di "Ricomincio da capo", celebre capolavoro del 1993 che, in lingua originale, era uscito nelle sale come "Groundhog Day" (ovvero "Il Giorno della marmotta").

Ma il personaggio di Phil Connors interpretato da Bill Murray, protagonista di quel film dal carattere scorbutico ed egoista, aveva avuto il pregio – nello sviluppo della trama – di riuscire a migliorare sé stesso e aiutare il prossimo. Il Pd, invece, dopo 15 anni abbondanti di storia, rimane costantemente avvitato in un loop temporale dove non intravede alcuna via di uscita: commette gli stessi identici errori del passato e, già che c'è, ne aggiunge anche qualcuno di nuovo. E dire che restare al governo per 11 anni senza vincere una sola elezione politica avrebbe dovuto già aprire più di una riflessione sul fronte dem. Ma, come sosteneva anni fa Curzio Maltese, il centrosinistra alla fine non è nient'altro che una "coa(li)zione a ripetere".

Il Pd si attorciglia su se stesso

Divisioni, litigi, autoreferenzialità, correnti, governismo, mancanza di proposte, perdita di identità, governismo, (presunto) senso di responsabilità, sfaldamento della base e l'intramontabile "analisi della sconfitta": sono solo alcuni dei refrain che ciclicamente tornano all'interno del Partito Democratico in occasione di una debacle elettorale oppure del completamento del percorso delle primarie. Il caso vuole che entrambi questi eventi politici capitino nel febbraio 2023, a distanza di neanche due settimane l'uno dall'altro. Il risultato che sta derivando da questo combinato disposto è quello di un Armageddon totale, dove i "notabili" del partito sembrano condannati a subire la stessa pena che Dante inflisse agli indovini: quella di potere guardare soltanto all'indietro.

È bastato infatti che Stefano Bonaccini – ora nettamente avanti nel voto dei circoli nei confronti di Elly Schlein, in attesa dei gazebo di domenica 26 – si lasciasse sfuggire un giudizio benevolo nei confronti di Giorgia Meloni che subito si è alzato in piedi Andrea Orlando per contrastare l'affermazione del presidente della Regione Emilia Romagna. Come se constatare il fatto che un'esponente politica che ha portato in dieci anni il proprio partito dall'1,9% al 26% è capace, diventasse automaticamente per certi dirigenti "intelligenza con il nemico". Gli stessi dirigenti che erano già responsabili dell'organizzazione nella segreteria di Walter Veltroni nel 2007. Anno dal quale il Pd perderà più di 6 milioni e mezzo di voti e farà fuori nove leader nazionali.

Quello che trionferà domenica notte sarà il numero 10: una cifra tonda che però non porta per niente bene. Del resto, da "Dieci piccoli segretari" al finale di "Dieci piccoli indiani" il passo può essere estremamente breve.

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