L'11 giugno 1984, Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, muore a causa delle conseguenze di un ictus che l'ha colpito quattro giorni prima nel corso di un comizio, che non ha voluto interrompere. La commozione è generale, e giustamente in questi giorni Berlinguer è al centro delle celebrazioni della sua parte politica ma non solo. Articoli e saggi ci offrono il ritratto di un leader duramente sconfitto su tutti i tavoli: quello dell'eurocomunismo, un sogno rimasto tale; quello della questione morale, alla quale il Pci non era certo estraneo; quello della politica interna, dove il compromesso storico si è trasformato in un triste consociativismo. Eppure si comprende l'amore per il personaggio che aveva cercato inutilmente di incarnare una alternativa all'ormai grottesco comunismo moscovita. Tutte le promesse di rinnovamento dell'uomo e della società si erano rivelate impossibili da mantenere. Il sistema in sé era economicamente insostenibile nonostante l'ampio uso della schiavitù organizzata nei campi di lavoro chiamati Gulag. In quanto all'uomo: vecchio o nuovo che fosse, solo il nazismo seppe umiliarlo allo stesso modo, tappandogli la bocca, togliendogli la vita, spiandolo perfino in famiglia, riducendolo a un ingranaggio senza prospettive di miglioramento. L'esperienza di Berlinguer dimostrò che non esisteva un comunismo senza coercizione.
Mentre la sinistra celebra il suo mito, e con esso la propria gioventù, la destra potrebbe almeno non dimenticarsi di un'altra ricorrenza. Il 5 giugno 2004 moriva Ronald Reagan, ex presidente degli Stati Uniti, amatissimo in patria, disprezzatissimo altrove. Reagan e Berlinguer sono come il diavolo e l'acqua santa nella opinione pubblica italiana. Reagan: un guitto, un attore, un fascistoide, un nemico del popolo. Ma sarà davvero così? Ronald Reagan si presentò con una battuta che ben ne riassume il punto di vista: «Il governo non è la soluzione al nostro problema; il problema è il governo». Si riferiva alla fame dello Stato, una macchina burocratica che ha come primo e imperativo obiettivo quello di nutrire se stessa e di guadagnare sempre più spazio, sottraendolo alla società civile. Per questo disse che il governo è come un bambino dall'appetito insaziabile e senza alcun senso di responsabilità: «Il punto di vista del governo sull'economia può essere riassunto in poche brevi frasi: se si muove, tassalo. Se continua a muoversi, regolalo. E se smette di muoversi, sovvenzionalo». Mentre citiamo, diventa inevitabile domandarsi se un po' di Reagonomics, come si chiamavano le ricette economiche di Reagan, non farebbe bene all'Italia, fino a qui allergica al libero mercato, alla competizione, alla sussidiarietà, alla valorizzazione del privato. E questo non significa che il privato abbia sempre ragione: Reagan proponeva un capitalismo dotato di morale (cristiana, come mostrano le battaglie sull'aborto) senza la quale sarebbe degenerato in avido materialismo.
Più che Berlinguer, all'Italia manca, è sempre mancato, un Reagan. I risultati dello statalismo li abbiamo davanti agli occhi.
Quelli del liberismo forse non li conosceremo mai. Resta il dato di fatto che a liquidare definitivamente il comunismo, incluso quello erede di Berlinguer, fu proprio Reagan, facendo crollare l'Unione sovietica senza sparare un colpo.
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