«Il passato è passato. Ma resta» - ironizzava Roberto Gervaso «solo per vivere due volte il futuro». Resta anche per rimuginare un passato suggestivo, povero e bello che io ho sperimentato insieme ad un bambino Vittorio Feltri - approdato a 5 anni nel 1948 in casa dello zio Ernesto Villa e della zia Nella Sangalli di Bergamo, fedeli amministratori di latifondi intestati ai Baranello. Egli bruca subito le «Terre del Sacramento» in un accrescimento di amicizie con piccole «bande» di birichini. Di 7 anni più grande di lui assieme a Franco Mancini sarò stato forse anch'io fra i primi ad abbracciarlo e a inserirlo e a crescerlo in realtà profondamente diverse dalle sue.
Da quella puerile e romantica effusione, è scaturito il legame adulto profondo e fecondo. E, più tardi lo seguirò idealmente in tutti i suoi soggiorni guardiensi, dove tornerà, caparbiamente, anche dopo la morte dello zio Ernesto avvenuta a 66 anni nel settembre 1959. Tornerà volentieri qui - «dove passano le nuvole più belle» insieme ad Ariel suo fratello maggiore, con la sorella Mariella e la mamma Delia.
Vittorio riscatta impulsivamente il pathos delle nostre pesche, le più profumate del mondo; dei nostri orti criminalmente sommersi dallo Stato, assieme allo storico Ponte d'Annibale e dei nostri ortolani, sfrattati dalle loro terre e ridotti a vagabondare nel mondo. Realtà che tormenta ferocemente Vittorio Feltri. «Non odio i meridionali; li tengo a cuore. Ma visto come i notabili del sud hanno ucciso le loro terre, non vorrei che uccidessero l'Italia intera». Su Panorama del 4 novembre 2010, proruppe proprio così da «cane sciolto». E rievocò anche il Biferno gonfio di acque, dove Franco Mancini lo tuffò per la prima volta dentro una correte vorticosa ma trasparente, e gli insegnò l'iniziale regola del nuoto. E torna ad infuriarsi perché l'unico fiume, interamente molisano, ci era stato sbrigativamente «fottuto» non tanto per dirottarlo a Napoli per un bene comune, ma per disperderlo incoscientemente già nel ventre del Matese. E da chi? Non certo dai nordici ma da pseudo astuti meridionali in perenne letargo.
Intorno al Natale 1985 Vittorio mi fa rintracciare a Palata da Nino Amoroso, allora Presidente dell'Ordine dei Giornalisti «Lazio-Molise». Mi fissa l'incontro a Guardia anche con Tonino Scarlatelli e Tonino Trolio, già guardiano e cavallaro di Baranello. Colmandomi di tenerezze, borbotta: «questo tuo paese non è uno sciame di case; è il pane caldo!». Vittorio non abbandonerà il Molise, né mi lascerà mai solo. Sfoggia in prima pagina di Libero, l'8 settembre 2017: «Meno male che esiste il Molise».
Vittorio tuona contro i meridionali perché li ama, perché non ne sopporta inerzie e vergogne. Perché nota e annota disamori e soprusi; e si spaventa del delitto impunito che l'Agenzia del Demanio seguita a perpetrare su quel Lago tramutandolo in un immondezzaio nauseante e in una terra di nessuno. Ma «bene-dice» Vittorio coloro che si danno da fare ed escogita una operazione giornalistica, una Santa Crociata del Nord per i beffeggiati del Sud: «È giunta l'ora di raccontare il Molise dimenticato».
Feltri è nel Collegio dei Giurati per la 2^ edizione del Premio Letterario e Giornalistico «il Molise nel Mondo e il Mondo nel Molise», celebrato a Guardialfiera nell'anno 2002. È con me, accanto al Sud nelle quattro «Rassegne Molisane d'Arte Contemporanea» esposte nella Galleria del Canova a Roma, una delle più eleganti d'Europa.
E Vittorio, è rimasto così: lunatico e amabile, espansivo e esplosivo, provocatorio e gradevole. Mi fa sentire la sua voce calda di affetti e di slanci. Testardo, uomo pieno di forza, imbattibile, con il gusto della sfida e dell'autoironia. Nel 2020 la corona di aggancio all'asse oscillante della storica campana di Guardiera è incrinata. È la più antica del mondo fusa dai Signori del bronzo di Agnone nel 1598, è l'unica ancora efficiente. Occorrono 15mila euro per colare una nuova e permettere a quella secolare di diffondere ancora la sua voce. Il popolo vive il quieto torpore d'una civiltà incivile.
Ne viene a conoscenza Vittorio e risolve con una sostanziosa e sorprendente munificenza. La «nobilitas», secondo Dante «è la capacità di amare l'uomo e la verità e di perseguire la virtù».*Presidente emerito Centro Studi «Molise 2000»
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