Moby Prince, la vergogna infinita

Nel giorno dell'anniversario della tragedia ancora ci si interroga sul perché della più grande sciagura della Marina mercantile italiana dal secondo dopoguerra. Ecco come andò davvero quella sera maledetta di 23 anni fa. Quei fascicoli che non verranno mai aperti

A 23 anni dalla tragedia del Moby Prince, avvenuta il 10 aprile 1991 e in cui persero la vita 140 persone, la vergogna di quella sera continua.
L'anniversario acuisce le polemiche e, soprattutto, la voglia di giustizia. "Dopo 23 anni ancora nessuna verità per i familiari delle 140 vittime della strage del Moby Prince. Una tragedia con ancora troppi punti oscuri da chiarire, troppe responsabilità da accertare, una ferita aperta nella storia del nostro Paese che esige da parte delle istituzioni il massimo impegno nella ricerca della verità. Si istituisca quanto prima una commissione parlamentare d'inchiesta, dando seguito al ddl depositato da Sel alla Camera". Lo affermano in una nota le parlamentari toscane di Sinistra ecologia e libertà, Martina Nardi, Marisa Nicchi e Alessia Petraglia. "Gli elementi emersi negli ultimi mesi e raccolti nel dossier alla base della richiesta di istituzione della commissione da parte di Sel - aggiungono - impongono un approfondimento e una risposta forte da parte dello Stato al dolore dei familiari. Chiediamo quindi al governo e a tutte le forze politiche in Parlamento di sostenere questa iniziativa per arrivare, entro la fine di questa legislatura, a pronunciare, finalmente, una parola di verità".
"Fare piena luce sulla tragedia della Moby Prince. E' l'unica via per onorare la memoria delle vittime", afferma il presidente della commissione Ambiente alla Camera, Ermete Realacci, sul caso Moby Prince, sperando che "il governo chieda agli Usa i tracciati delle navi".
Emiliano Liuzzi del Fatto quotidiano se n'è occupato a lungo. Un'archiviazione giudiziaria frettolosa dove l'ultimo problema era avere qualcosa che assomigliasse alla verità. Il resto sono e restano supposizioni. La verità più comoda è, in caso di tragedia aerea o navale, parlare di errore umano. E' la scorciatoia migliore. Succede che poi qualcuno si ostini a dire no. Per Ustica ci ha pensato Andrea Purgatori. Il disastro del Moby Prince, la più grande tragedia della marineria italiana, la testardaggine di due figli rimasti orfani troppo presto. Si chiamano Angelo e Luchino Chessa, il loro papà era il comandante di quella nave che finì fuori rotta.
"Se la commissione viene instaurata ci sono buone possibilità di arrivare alla verità storica", ha detto Angelo Chessa, sull'ipotesi di istituire una commissione d'inchiesta, parlando per la prima volta in Comune alla cerimonia in ricordo delle vittime. "Dal punto di vista politico si muove qualcosa - ha aggiunto - con il primo fatto concreto, quello della richiesta di commissione bicamerale di inchiesta. Se sono qui a parlare dopo 23 anni significa che qualcosa è cambiato. Grazie anche al lavoro di Francesco Sanna e lo studio Bardazza Adinolfi che ha permesso di riunire tutti i familiari".
La cosa che si avvicina di più alla verità emerge da una perizia: il traghetto Moby Prince si trovò davanti uno sbarramento di navi che avevano appena caricato armi a Camp Darby, e che non dovevano essere in rada. C'erano manovre di guerra la sera del 10 aprile 1991 nel porto di Livorno. E quelle 140 persone bruciarono vive per colpa di una manovra di quella guerra invisibile. Come è successo per il Cermis e più o meno per Ustica, non si può mettere in crisi gli equilibri internazionali anche di fronte a svariati morti. Sono solo numeri in fondo, solo persone che valgono molto meno dei rapporti di potere fra Stati. Quindi vietato avanzare ipotesi, muovere critiche, fare denunce. Vietato, insomma, cercare la verità. Meglio insabbiare tutto, per non indispettire la nazione amica di turno.
Le navi a Livorno in porto c'erano legittimamente. Va detto. Esistono degli accordi presi nell'immediato dopoguerra, che non impongono alcuna comunicazione. La base di Camp Darby ha un canale che porta le navi fino al porto. E quelle stesse navi, a differenze delle navi civili, possono muoversi o restare in rada senza fornire alcuna rotta alla capitaneria di porto. Navi invisibili insomma, di cui nessuno sa nulla, che non compaiono in alcuna carta nautica, che non vengono registrate. Così è stato deciso e così viene fatto. Invisibili fino a quando però non te le trovi davanti e non rischi di sbatterci contro. Proprio perché nessuno ti ha avvertito che si sarebbero trovate in quel punto. Proprio sulla tua rotta, proprio davanti alla prua della tua nave.
Quello che ci troviamo ancora una volta a discutere sono anni di insabbiamenti. Gli armadi, in questo Paese, devono rimanere chiusi. Gli scheletri non devono mai uscire. Li hanno aperti nell'ex Unione sovietica. Lo hanno fatto gli Stati Uniti. In Italia gli armadi della vergogna, quelli pieni di fascicoli dei servizi segreti più o meno deviati, non possono essere toccati. Così non sapremo mai cosa accade a Bologna, Ustica, perché e per volontà di chi non venne liberato Aldo Moro, chi mandò a morire il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, chi alimentò gli esplosivi della mafia per far fuori Falcone e Borsellino. E' così, nessuno lo può fare. E può andarci anche Gesù Cristo in persona a fare il presidente del Consiglio, nessuno può aprire quegli armadi e tirare fuori quei maledetti scheletri che sanno di morte e grondano di sangue.
Lo spunto è il Moby, ma quella tragedia è solo un'icona. Una tragedia che le racchiude tutte, una delle ultime di una lunga serie di stragi mai chiarite. Quando accadde Emiliano Liuzzi del Fatto quotidiano era solo un ragazzo e racconta: "Un vecchio cronista del Tirreno, Furio Domenici, caratteraccio, ma scarpe consumate a prendere appunti, mi chiamò la sera stessa dell'incidente. "Mettiti la macchina fotografica al collo, domani saliamo su quella nave e andiamo a vedere cosa diavolo è successo". Salimmo con le tute della Labromare, la ditta che insieme ai vigili del fuoco cercava di spegnere gli ultimi incendi a bordo e che poi l'avrebbe bonificata. Non capimmo assolutamente niente, vedemmo qualcosa che assomigliava vagamente a quelle che erano state vite umane nel salone: fu come entrare in un forno crematorio. Quell'odore me lo porto ancora appresso. E non passerà mai, credo. Forse un giorno, se ci diranno cosa accadde e perché 140 persone che dovevano raggiungere la Sardegna morirono".
"Oggi ritengo importante che ognuno di noi senta di dover dire #Iosono141", è il messaggio twittato dal comandante Gregorio De Falco, responsabile della sala operativa della Direzione marittima della Toscana, l'eroe della Costa Concordia, quello del "sali a bordo cazzo!" urlato per telefono al comandante Schettino, nel giorno del 23/o anniversario della tragedia del Moby Prince.
Un "risarcimento alla memoria delle vittime" dell'ufficiale simbolo della gestione dei soccorsi nel naufragio della Concordia che non può che fare piacere ai familiari delle 140 vittime morte a bordo del traghetto della Navarma dopo la collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno.
Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso ha rinnovato "la mia vicinanza e il mio affetto alle famiglie colpite ed esprimere il mio più profondo cordoglio per le vittime di quel terribile incidente. Non potremo mai dimenticare quella notte nella quale 66 membri dell'equipaggio e 75 passeggeri persero la vita inghiottiti dalle fiamme a largo del porto di Livorno, nel corso della più grave tragedia che abbia colpito la Marina mercantile italiana dal secondo dopoguerra. Le istituzioni e la società civile hanno il dovere di rimanere al fianco dei famigliari delle vittime, facendo chiarezza su quanto avvenuto. Mi auguro che anche il Parlamento conclude il presidente del Senato - sappia dare il proprio contributo, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione per poter accertare tutta la verità su una strage che per molti aspetti resta avvolta nel mistero".
Il sindaco di Livorno, Alessandro Cosimi, ha chiesto proprio a Grasso "che si parta con l'istituzione di una commissione di inchiesta parlamentare per evitare un vulnus della democrazia. Si rischia un annacquamento del ricordo. Sono convinto che questa iniziativa non deve perdere la propria forza. Bisogna tenerla in vita perché la tragedia del Moby Prince non ha solo elementi di fondo simili ad altre situazioni: una democrazia matura non può continuare a vivere sul fatto che sulle stragi che si sono verificate nel nostro Paese non ci sia risposta. Giustizia è un fatto di procedure e su questo dobbiamo chiedere che si aprano scenari che ci rassicurino. La notte della tragedia del Moby Prince non c'è stato uno tsunami: c'era una situazione di normalità di un porto che deve essere spiegata alla città di Livorno. Le istituzioni devono dare risposte ai cittadini".


Loris Rispoli presidente della associazione "140" ha concluso esigendo che "i colpevoli di quei 140 omicidi che sono scritti tra le righe, siano puniti, questo dobbiamo fare. Oggi abbiamo la speranza che il Parlamento possa dirci finalmente perché".

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