Chiamiamoli «oriundi», come certi calciatori. Prodotti alimentari con il passaporto italiano ma che hanno sangue straniero. E magari giocano nella nazionale del made in Italy in tavola. Non parliamo di truffe, di tarocchi, della falsificazione alimentare che soffia all'industria del gusto italiano miliardi di euro l'anno. E nemmeno del cosiddetto italian sounding, che gioca sull'ambiguità limitandosi a far sembrare italiani i prodotti senza dichiararlo esplicitamente. No, qui parliamo di golosità made in Italy prodotte con materie prime che arrivano da lontano. Spesso da molto lontano. Tutto legale, tutto vero, tutto piuttosto inquietante.
L'ultimo caso riguarda la pasta, forse il prodotto italiano più conosciuto. Molte delle aziende italiane più rinomate utilizzano per trafilare fusilli e rigatoni grano duro di provenienza straniera, americana o ucraina. Non una novità, intendiamoci. Il dibattito attualmente verte sull'opportunità che questi pacchi di pasta possano legittimamente esibire il tricolore sulla confezione, come rivendicato senza alcun dubbio dai produttori, secondo cui a garantire l'italianità dello spaghetto basta il know how e del resto il grano italiano non basta ad accontentare la domanda mondiale, e come invece la rigida normativa italiana sembra mettere in dubbio.
Sono tanti i prodotti italiani realizzati con l'ausilio di ingredienti stranieri ma con il «permesso di soggiorno». Tempo fa Coldiretti denunciò il fatto che tre prosciutti su quattro venduti in Italia sono in realtà cosce di maiali allevati in Olanda, Danimarca, Spagna, Francia, Belgio, Germania e in Europa dell'Est, senza che peraltro l'origine esotica lasci traccia sull'etichetta. Lo stesso vale per la mozzarella e per altri latticini e formaggi, spesso prodotti con latte e cagli provenienti da altri Paesi europei. Una pratica, questa, che assume la veste di frode solo quando esiste un disciplinare, come nel caso della Mozzarella di bufala campana dop, che prevede che il latte sia munto da animali locali e iscritti a un'apposita anagrafe.
Un altro prodotto «oriundo» è la Bresaola della Valtellina. E qui il paragone calcistico casca a fagiolo, visto che molta parte del magrissimo salume lombardo viene notoriamente realizzato con carne di bovini provenienti dal Brasile, che in Italia viene sapientemente salata e stagionata. Qualche tempo fa, quando sembrava che l'Ue dovesse porre dei limiti all'importazione di carne sudamericana, i produttori valtellinesi minacciarono la serrata del magrissimo insaccato, mettendo in allarme tutti i fissati della dieta Dukan. Lo stesso vale per lo Speck altoatesino Igp, il cui disciplinare prevede che le carni arrivino da suini «nati in allevamenti ubicati nei paesi dell'Unione Europea». E infatti, le carni poi sapientemente affumicate e stagionate nella provincia di Bolzano hanno sovente il passaporto austriaco e tedesco. Almeno non avranno problemi linguistici. Quanto alla Mortadella Bologna Igp, il disciplinare non prevede che i suini la cui carne verrà miscelata, lavorata, aromatizzata e insaccata in loco, abbia provenienza italiana. E anche l'Aceto Balsamico (non il pregiatissimo tradizionale Dop ma quello Igp che troviamo in tutti i supermercati) viene prodotto da mosti di uve che possono arrivare anche fuori dalle province di Modena e Reggio Emilia.
E il pane? Qualche tempo fa un quotidiano scoprì che una buona parte del pane venduto in Italia, soprattutto quello a basso prezzo dei supermercati, arriva dalla Romania. Dov'è lo scandalo?, si chiese più d'uno. Lo scandalo esiste nel caso degli scadenti tartufi stranieri spacciati per italiani grazie ad aromi e oli sintetici. Ma qui la legalità non c'entra più.
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