A questo punto il sospetto si fa più concreto. Maurizio Landini sta smarrendo il senso della democrazia? Non è una provocazione. È un dubbio, un quesito, forse un'inquietudine. Il leader della Cgil non sta alzando il livello dello scontro. Non è una lotta sindacale senza quartiere. Non c'è un autunno caldo. Non si batte per i diritti e gli interessi dei lavoratori. Il suo gioco è sottile e sotto alcuni aspetti più velenoso e profondo. Landini punta a delegittimare il governo Meloni, ma lo fa scardinando con leggerezza i valori fondamentali della democrazia parlamentare. Tutto questo avviene, quasi per paradosso, accusando i suoi avversari politici di autoritarismo.
L'ultima svolta c'è stata poco tempo fa. Landini invita le masse alla «rivolta sociale». L'appello è generico. Non si limita al sindacato e non esclude violenti, estremisti o rivoluzionari di vario genere. Non chiarisce le regole di ingaggio di questa rivolta. Non dice quale sia l'obiettivo finale e con quali mezzi si può realizzare. È però un messaggio universale, aperto a chiunque abbia rabbia, rancore e sopratutto furore ideologico da portare in ogni piazza italiana. Il sottinteso è che questa lotta ha dignità di «resistenza», tanto è vero che si parla apertamente di reazione a un governo autoritario. Se il discorso di Landini fosse reale i cittadini liberi dovrebbero sentire il dovere morale di combattere questo regime con tutti i mezzi. Il tiranno va abbattuto. È questo che sta dicendo il segretario della Cgil? A meno che non sia solo un discorso da bar, avventato e tanto per parlare.
Landini infatti confessa che certe parole non vanno prese alla lettera. Non prende lezioni da nessuno. «Noi gli atti di violenza li condanniamo tutti e non fanno parte della nostra storia». Quella «rivolta sociale» è stata capita male. È un invito, dice, a non girarsi dall'altra parte davanti alle diseguaglianze. Tanto rumore per nulla. La rivolta insomma è solo un modo di dire. La questione si potrebbe chiudere qui, con una retromarcia vaporosa, solo che Landini non resiste e butta lì un'altra bestemmia contro il sentimento e i valori democratici. Lo fa come al solito dando per scontato che i voti a lui sgraditi non valgono nulla, non rappresentano e vanno rifiutati come spazzatura. Eccolo allora il capolavoro populista. «Il governo ha la maggioranza in Parlamento ma non nel Paese». Con questa frase Landini manda al macero i principi della democrazia parlamentare e svuota di ogni senso il ruolo costituzionale di Camera e Senato. Non contano più nulla. La democrazia di Landini diventa metafisica, perché non si basa sul confronto elettorale ma discende dall'alto. È un'investitura che viene prima del voto. Il segretario della Cgil incarna la volontà generale. È lui che conosce il vero sentimento degli italiani. Strano. Il sindacato ormai rappresenta la minoranza dei lavoratori ma per qualche strano motivo fa un passo oltre e si pone sulla scena come «partito degli italiani».
È chiaro che quella di Landini è una finzione. È un gioco sfacciato per trovare un ruolo politico da leader fuorisacco dell'opposizione. È una mossa che rischia di danneggiare la stessa Cgil e si muove con le stesse logiche di Vannacci.
Le idee sono opposte ma il meccanismo di conquista del consenso non è poi così diverso. È la democrazia demagogica di piazza e bar, virtuali e non, che toglie dignità al Parlamento. E forse è proprio questo il senso, un po' misero, della rivolta sociale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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