Ci sono dibattiti che infuriano lo spazio di qualche mese, poi si afflosciano e infine si inabissano nell'indifferenza generale. Circa dieci anni fa, nel 2016-2017, l'espressione hate speech iniziava a far capolino sempre più spesso negli editoriali dei quotidiani italiani. Era un prestito linguistico dagli Stati Uniti e indicava, alla lettera, i discorsi d'odio, nella sostanza, le parole che incitavano all'odio verso le minoranze, «neri» e omosessuali in prima battuta. In America ne uscì un dibattito filosofico e costituzionale. L'hate speech era sostenuto dai fautori del politicamente corretto ed era fortemente avversato da chi ravvisava una infrazione al free speech, alla libertà di parola, diremmo noi, garantita dalla costituzione a stelle e strisce. Un principio inviolabile sul quale i cittadini statunitensi, comprensibilmente, sono piuttosto suscettibili e attenti. Le accuse di hate speech era anche visto come una possibile manganellata in bocca agli avversari politici. Inciti all'odio, dunque taci e vatti a nascondere. Un po' come accade da noi con le accuse di fascismo lanciate in assenza di camicie nere a chi fascista non è. La questione prese piede anche nel nostro Paese dove si cominciò a pensare subito a commissioni, indicate dalla politica, incaricate di vigilare sui possibili discorsi d'odio. In Italia esisteva la legge Mancino contro i crimini d'odio, categoria nella quale ricade anche l'hate speech. Ma la legge tutelava soprattutto le minoranze aggredite dai razzisti. Il deputato Alessandro Zan (nella foto con Elly Schlein a un recente gay pride) pensò di integrarla con un dispositivo a difesa della comunità LGBTQ.
Bene. Tutte queste battaglie sono state inghiottite dal nulla in poche settimane. Si è stabilito che è comprensibile, in un dibattito, dare del «coglione» e della «bastarda» alle più alte cariche dello Stato; e vabbè. Trump, spesso accusato di essere un odiatore, e stato coperto di insulti fino a quando un pazzoide ha deciso che sparargli era una buona azione. In ogni corteo pro-Palestina vengono scanditi slogan antisemiti, poi ci si stupisce del pogrom calcistico ad Amsterdam. Un professore può indicare nel ministro dell'Istruzione un «bersaglio debole da colpire come la Morte nera in Guerre Stellari». Non è un'idiozia minacciosa.
È una metafora intelligente e un'opinione argomentata.Insomma, abbiamo capito: se gli insulti vanno da destra a sinistra, è hate speech; se vanno da sinistra a destra, sono libere opinioni. Bastava dirlo subito per evitare anni di discussioni retoriche.
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