Tutto per la paghetta. E che paghetta. Trecentomila euro l’anno. Lordi. Che poi, a dividerli per dodici mensilità, fanno la bellezza di venticinquemila euro. Sempre lordi, per carità. Ma comunque tantini, anche al netto delle tasse, se percepiti per girarsi i pollici. Perché l’assegno che Beppe Grillo incassava dal Movimento 5 Stelle era una sorta di premio di fine carriera. Da comico sul palcoscenico a senatore a vita dei giardinetti: un bel salto, senza nemmeno essere mai stato investito di tale incarico dal Quirinale. Una montagna di soldi che profumavano di vitalizio parlamentare. Lui che in Parlamento non è mai entrato perché ha sempre avuto così a schifo la democrazia da non essersi voluto candidare.
Trecentomila euro l’anno, dunque. Che fortunatamente pesavano sulle casse del movimento e non su quelle dello Stato ma che, se paragonate agli stipendi delle più alte cariche dello Stato, farebbero comunque venire invidia a chiunque tra noi comuni mortali e forse persino al capo dello Stato, la cui ral è di 179mila euro lordi l’anno, e al presidente del Consiglio, che invece di euro ne porta a casa appena un quarto (80mila). Nemmeno il presidente della Rai, da quando è stato messo il tetto a 240mila euro, si avvicina a cifre tanto alte. E tutta questa è gente che un lavoro ce l’ha per davvero. Mica come Grillo, pagato per imprecisate consulenze di comunicazione. Bisogna dargliene atto, però.
Beppe è riuscito ad abbindolarli tutti i grillini. Buon per lui. Finché è durata. Ora, però, la festa è finita. Game over. L’avvocato in pochette ha chiuso i rubinetti. Niente più bonifico a fine mese. L’Elevato, ovviamente, se l’è presa. Non fatichiamo a immaginarlo con le vene gonfie del collo, paonazzo in volto, che sbraita contro Giuseppe Conte. «Vada a fondarsi il suo bel partito», urla come un forsennato. È un fiume in piena: «Si può fare il suo manifesto con la sua faccia bella». E poi, guardando con amarezza al passato, ammette: «Avrei dovuto lasciarlo al banchetto».
I ben informati raccontano che sei anni fa, quando Luigi Di Maio e Davide Casaleggio gli fecero per la prima volta l’oscuro nome di un avvocato di Volturara Appula, Grillo reagì con sguardo corrucciato e perplesso. E li interrogò con la finezza che lo contraddistingue sempre: «Ma chi cazzo è questo?». Di lì a poco l’azzeccagarbugli venne catapultato sullo scranno di Palazzo Chigi. Da quel momento i due contendenti se le sono date di santa ragione fino a quando il lauto assegno mensile non ha anestetizzato le intemperie del fondatore. Ma ora che il figlioccio è più potente del patrigno, il patrigno vuole vendetta: «Gliela farò pagare». Solo che non può. Perché Giuseppi, il movimento, glielo ha sfilato da sotto il naso. E Grillo sa molto bene che andarsi a impelagare in una causa in tribunale finirebbe per costargli di più che non rinunciare al vitalizio da trecentomila euro l’anno.
Un bel rebus, per Beppe: continuare a combattere o andarsene via con la coda tra le gambe? In cuor suo vorrebbe l’estinzione del M5s. Sogna di premere il tasto OFF. O peggio: quello rosso con su scritto DELETE. «Un padre – gli fa la ramanzina Conte ha il diritto a dare la vita, non a dare la morte ai figli». E in cuor suo il guru senza più seguaci sa di non poterselo permettere ma soprattutto che gli toccherà arrendersi e lasciare che l’avvocato del popolo si tenga la baracca e i soldi.
Tra qualche mese (o tra qualche anno), quando seduto su una panchina ai giardinetti ripenserà al dorato vitalizio che gli è stato tolto, forse si chiederà se ne è valsa la pena prendersi a testate con Conte sul vincolo del secondo mandato.
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