Un italiano in fuga oltre l'Himalaya

Elios Toschi e un'incredibile avventura della Seconda guerra mondiale

Un italiano in fuga oltre l'Himalaya

Immergersi in Dagli abissi marini alle cime innevate. In fuga oltre l'Himalaya (in edicola dalla prossima settimana per i tipi di Oaks, pagg. 314, euro 22) di Elios Toschi (1908 - 1989) è come scendere in un sommergibile tascabile, che però abbia degli oblò da cui guardare spazi subacquei profondi e infiniti. Il volume è compatto per pagine e per il lasso temporale narrato. Toschi, uomo d'azione con il piglio del marinaio e del sommergibilista, non usa mai una parola più del necessario, anzi procede per sottrazione, con una grande capacità di far vedere al lettore il non detto. Ecco perché questa cronaca personale di guerra e di fuga si rivela essere come lo zaino di un buon scalatore o la sacca stagna di un palombaro: appena lo apri ne esce di tutto. C'è una narrazione quasi salgariana, ma tutta vera, che porta il lettore dagli abissi del Mediterraneo sino alle vette più alte del mondo, con in mezzo le più rocambolesche evasioni dai campi di prigionia inglesi. Ma c'è anche una narrazione senza sconti e di prima mano, della tremenda condizione che vissero le migliaia di prigionieri italiani deportati verso l'India dagli inglesi, dopo essere stati inviati nel deserto del Nord Africa e nelle montagne della Grecia da un regime abile ad organizzare parate e incapace militarmente. Condizione a cui lui ebbe la testarda forza, unita ad una buona dose di fortuna, necessaria per sottrarsi.

Partiamo allora dalla biografia di Toschi, ovvero di un marinaio, capace poi di trasformarsi in un genio della fuga con vocazioni al travestimento e alle follie alpinistiche. Classe 1908 e nato ad Ancona, Toschi entra giovanissimo, nel 1925, all'allora Regia accademia navale di Livorno. Lì conosce quasi subito Teseo Tesei con cui darà vita ad uno dei più incredibili strumenti di infiltrazione della Seconda guerra mondiale, il siluro a lenta corsa. Questo mezzo d'assalto conosciuto anche come maiale è ideato da Tesei e Toschi nel 1935. Nel 1939 il reparto della marina che si addestrava all'uso di questi mezzi fu trasferito in una base segreta situata a Bocca di Serchio. Nacque un modo particolare di essere ufficiali e marinai. Non piaceva a tutti e non sempre agli incursori venne resa la vita facile. Toschi lo racconta in passaggi brevi, quasi laterali, ma sempre amari. Da un lato c'è l'incredibile sforzo a cottimo condotto al Serchio. Dall'altro i denigratori che «insistono per anni... ostacolando la nostra opera fino allo scoppio delle ostilità». Ma con la guerra penetrare nel porto di Alessandria divenne una delle pochissime speranze di vincerla.

Toschi entra in azione. Nell'agosto 1940 venne imbarcato sulla torpediniera Calipso diretta alla baia di Bomba per la missione «G.A.1»: il trasferimento delle attrezzature e dei mezzi sul sommergibile Iride per penetrare il porto di Alessandria. Subiscono un attacco di aerosiluranti che colpisce la nave appoggio Monte Gargano, dove Toschi si salva miracolosamente, e che affonda il sommergibile Iride. Toschi organizzerà un'azione subacquea per riuscire a soccorrere gli uomini imprigionati nel sommergibile. Tutto un giorno e una notte di lotta contro un portello bloccato, immersioni continue. Si tornerà rapidamente all'attacco anche se Toschi sa che: «il nemico è informato dei nostri movimenti». Il 21 settembre 1940 il sommergibile Gondar salpa da La Spezia verso Alessandria d'Egitto per la missione «G.A.2», con a bordo 6 incursori, tra cui Toschi. Vengono scoperti e attaccati da cacciatorpedinieri dotati di sonar a cui si affiancano una corvetta e degli aerei. Non c'è scampo, l'unico esito possibile è l'affondamento del Gondar. Quasi tutto l'equipaggio, miracolosamente sopravvissuto, viene catturato.

Ma qui inizia la sua seconda incredibile avventura, quella da prigioniero e da fuggitivo che costituisce i tre quarti del volume. Toschi è bravissimo a descrivere la smania del recluso. Già dal primo campo di prigionia temporaneo nei dintorni di Alessandria: «Giungiamo a destinazione; la prima delle gabbie... gabbie dove dovrò passare probabilmente anni, si profila nella sabbia desertica... Ridda di pali secchi, induriti e filo spinato... pali dovunque e, in mezzo, filo spinato senza fine, in linee regolari e incrociantesi come a costruire una gigantesca rete e, sul suolo un groviglio inestricabile. Giungiamo in questa foresta di alberi morti...». Fuga è la sola parola che gli martella nella mente.

Nel campo vicino a Suez prova il tunnel, dalla nave verso l'India prova a fuggire da un boccaporto. A Bombay la prima vera fuga, saltando da un treno e perdendosi nella brulicante città indiana. Lui e un altro fuggitivo fanno rotta verso Goa ma vengono ripresi e spediti ai campi di Yol ai piedi dell'Himalaya. Dove vennero rinchiusi migliaia di ufficiali italiani di cui la storiografia ha parlato pochissimo. Anni e mesi di abbruttimento tra il caldo e la malaria, con le montagne lontano sullo sfondo. «Molti visi tristi passeggiano lungo i reticolati, fumando silenziosi, guardando a volte il cielo meraviglioso con i colori violenti dei tramonti tropicali, ricordando forse la vita passata...». Toschi decise di non assoggettarsi a tutto questo, di cercare la salvezza della propria dignità anche a costo della morte. Fuggì ancora. Fu l'inizio di lunghe peregrinazioni a piedi nell'alta valle dell'Indo per tentare di raggiungere l'Afghanistan. Con ascensioni ad altissima quota e al limite dell'impossibile per uomini già stremati e privi di qualsiasi attrezzatura alpinistica. È la parte che dà il titolo al libro nella sua versione italiana, ed è giusto così. In questi sprazzi di libertà rubati attraversando cascate gelate, precipizi infiniti, e procedendo nella neve con le scarpe che si disfano, Toschi concentra tutta una serie di visioni, alcune quasi mistiche. Soprattutto coglie e cristallizza ogni briciola di umana bellezza che ha trovato nel contatto con le popolazioni locali. Verrà comunque ripreso anche questa volta. Ma non c'è due senza tre. Il terzo tentativo di fuga, infine, viene coronato dal successo. Meno romanticismo, più esperienza, meno avventura e più velocità: facendosi passare per pashtun, riuscì ad entrare a Diu, piccolo possedimento sempre portoghese dell'India nordoccidentale, dove rimase fino al termine della guerra. Il resto il lettore lo scoprirà da solo grazie a Toschi, immergendosi nel mare della sua scrittura, o scalando le sue pagine.

E sarà una grande avventura. Alla fine chi legge potrebbe chiedersi come mai Sette anni in Tibet di Heinrich Harrer sia diventato un successo internazionale e Toschi torni in libreria solo ora. La risposta è: siamo un Paese con poca memoria.

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