L’INUTILE SPIRITO OLIMPICO

Dite, accade qualcosa che non sapevamo? Prendiamoci qualche responsabilità, allora: prendiamocele noi cittadini che puerilmente dicevamo che sport e politica non andavano mischiati e buonasera, tutti davanti alla tv; prendiamole noi imprenditori che passando da quelle parti non ci lamentiamo perché ci pare sempre tutto abbastanza normale, o non esagerato come dicono; o ancora noi governo incapace semplicemente di disertare una cerimonia d’apertura che era farlocca come tutto il resto, coi tibetani trucidati mentre una bambina fantastica cantava l’Ode alla madrepatria ma con la voce di un’altra, che aveva denti meno perfetti, mentre i fuochi d’artificio in tv erano generati al computer e scorrevano immagini con laghi azzurri e foreste verdi e panda giocosi e vie della seta e insomma tutto, fuorché il Partito che storicamente ha distrutto tutto questo; noi atleti incapaci di fare come la tedesca Imke Duplitzer, che ha disertato perlomeno la cerimonia d’apertura e si è chiesta se fosse più importante la giustizia o la sua medaglia, incapaci di parlare anche solo come Margherita Granbassi, secondo la quale «per il Tibet libero rinuncerei ai giochi»; le responsabilità prendiamocele noi ministero degli Esteri o se volete del Commercio estero, capace di far la voce grossa solo con chi non conta niente, e attentissimo, solo pochi giorni fa, a prender le distanze dai sindaci Alemanno e Cacciari perché colpevoli di una mera ospitata a quel reietto del Dalai Lama: mentre noi, noi Farnesina, «ribadiamo il nostro sostegno alla politica di una sola Cina».
Quale Cina? Quella che arrestava la 79enne Wu Dianyuan perché aveva chiesto il permesso di protestare durante le Olimpiadi, condannata perciò a un anno di lavoro forzato? O quella del 24enne tibetano Pema Tsepak, morto di percosse della polizia qualche giorno fa? Oh, ma di elenchi ne abbiamo davvero abbastanza. Dov’è l’elenco delle multinazionali che hanno sospinto Pechino in barba a qualsiasi spirito Olimpico? Dov’è, colleghi, una bella inchiesta sulle motivazioni olimpiche di Coca-Cola, Kodak, Visa, Samsung, Swatch e Panasonic? O una sulle due ditte canadesi, Bombardier e SNC-Lavalin, che sostennero la candidatura di Pechino anche contro la loro connazionale Toronto?
E perché il 21 giugno non fece gran rumore, durante il passaggio della torcia a Lhasa, quel capo del Partito comunista del Tibet che urlò «Possiamo sconfiggere in modo definitivo la cricca del Dalai Lama»? Di che ci lamentiamo? Ce l’hanno raccontata, ce la siamo fatta raccontare. «Se assegnerete i Giochi a Pechino, aiuterete lo sviluppo dei diritti umani» disse nel 2001 Kiu Jingmin, buffonesco vice presidente del comitato olimpico cinese. E dopo l’assegnazione, nello stesso anno, il presidente Jacques Rogge disse che la situazione dei diritti umani sarebbe migliorata, e aggiunse che il Cio altrimenti avrebbe preso dei provvedimenti. Da allora, letteralmente inventando, il Cio ha sostenuto per anni che la Cina avesse fatto progressi: ha smesso i primi di settembre. Poco prima delle Olimpiadi c’era poi quell’altro fenomeno, Wang Wei, il segretario del Comitato promotore di Pechino, che assicurava come «i giochi miglioreranno tutte le condizioni sociali, compresa l’educazione, la salute e i diritti umani». Non hanno garantito niente, non è migliorato niente. La repressione, in Tibet, è tornata ai livelli della Rivoluzione culturale.

E il Cio, come massima esposizione, se l’è presa col giamaicano Usain Bolt per il suo stile nel festeggiare le vittorie. E tutte le organizzazioni umanitarie non smettevano di documentare come la Cina stesse tradendo qualsiasi spirito olimpico. Prendiamocela, qualche responsabilità: sono tutte libere e disponibili.

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