Labranca, volo in prima classe sopra la cultura "low cost"

Pubblicata per la prima volta su carta la sua rivista online: riflessioni, fra classici e trash, di uno scrittore "fuori canone"

Labranca, volo in prima classe sopra la cultura "low cost"

Ormai di Tommaso Labranca si parla spesso, e per fortuna, perché dello scrittore, autore televisivo e polemista, mancato all'improvviso nell'agosto del 2016, fino a tre o quattro anni fa non si sapeva molto. Di sicuro quando era tra di noi i giri degli intellettuali che contano, o che credono di contare qualcosa, lo avevano emarginato, o tutt'al più relegato al ruolo di rompiscatole, visto che aveva la perniciosa tendenza a rivelarne birignao, presunzione, limitatezza e prepotenza. Oltretutto nessuno come lui sapeva metterne a nudo le velleità con un sarcasmo che puntualmente feriva i loro ego ipertrofici.

Eppure ben pochi fra quelli della sua generazione (quelli nati a metà degli anni Sessanta e sbocciati nei Novanta) hanno prodotto così tanto.

Le sue opere, saggi e romanzi, avevano attraversato la grossa editoria, quella media, medio-piccola, piccola, minuscola e microscopica; con Luca Rossi aveva fondato quella che lui stesso definiva una «micro casa editrice», la 20090, dal numero di codice postale di Pantigliate, dove risiedeva. Si era mosso attraverso tutti i generi, dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Era uno stakanovista del «Do it yourself»: se vuoi farlo in totale libertà, fattelo da solo.

Intelligentissimo, coltissimo, poliglotta, disciplinato; è vero, aveva una personalità spigolosa. Era allo stesso tempo vanitoso e umile, sicuro del proprio talento e consumato dalla nevrosi. Rimarranno celebri i suoi rifiuti, i no detti in faccia ai potenti, che pure lo volevano a lavorare con loro (o forse per loro). Fossero editori, autori e conduttori televisivi del calibro di Fabio Fazio e Piero Chiambretti, produttori e capistruttura Rai e Mediaset, direttori di collana e editor blasonati, bastava che contravvenissero al suo ferreo codice morale, lo stesso che applicava su di sé, ed erano fuori dalla sua stima e dalla sua considerazione. Con ciò, era un romantico travestito, un punk gentile, un anarchico ordinatissimo. Ovviamente ha pagato tutto caro e salato.

Per quanto lo negasse, non aveva mai smesso di desiderare un riconoscimento pubblico, ma appeno lo otteneva si rintanava come un orso. Estese la pratica all'uso della Rete e dei social media: così come fin da adolescente aveva fondato fanzine e riviste che duravano da Natale a Santo Stefano, allo stesso modo apriva e chiudeva siti e profili Internet, a volte abbattendo i ponti dietro di sé, cancellando tutto, facendo terra bruciata, quasi non volesse lasciare appigli agli avversari, veri o presunti. Tuttavia, che lo sapesse o no, ma forse lo sospettava e addirittura se lo augurava, c'era quasi sempre qualcuno che salvava il salvabile e lo metteva da parte, a futura memoria. Cioè per esempio adesso.

Riappare quindi in volume la sua Labrancoteque (Gog edizioni, pp. 336, euro 28 - disponibile attraverso il sito della casa editrice, www.gogedizioni.it), rivista online, raccolta di testi e immagini che l'autore lanciava sul suo blog, a volte ex novo, a volte riprendendo scritti che aveva confezionato ad altri scopi (anche, come diceva lui, «alimentari»), ma che magari erano stati adattati e ridotti per motivi di spazio. La Rete era pur sempre un territorio di libertà, in cui alimentare la sua capacità di coniugare l'alto e il basso, Goethe e Beethoven evocati a una cena in compagnia di Paola e Chiara. O l'incontro in un ristorante fusion con le gemelle Kessler, seguito da un feroce e inesorabile pezzo critico su Morte a Venezia di Luchino Visconti, o a qualche riferimento a Guy Debord sulla società dello spettacolo.

La Weltanschauung labranchiana è molto ben rappresentata in questa lunga sequenza, in queste pagine graficamente molto ambiziose che gli sarebbero piaciute, anche se difficilmente lo avrebbe ammesso. C'è tutto il suo mondo, quello del trash, del pop, della postmodernità: packaging assurdi, pubblicità goffe, cartoline oleografiche, copertine di dischi pacchiane. E attraverso questo, l'analisi antropologica dell'Italia. E poi tutto quello che, almeno a metà degli anni Dieci (qui siamo grosso modo nel 2013), solleticava il «neoproletariato», vale a dire la massa conformista che si esaltava per le vacanze low cost a Ibiza, i viaggi di nozze a catena di montaggio, l'esotismo a buon mercato, le mutande da due soldi con l'elastico sopra la cintola a mostrare i marchi dell'alta moda.

Solo lui poteva intercettare le velleità culturali della borghesia midcult ideando gli «Adelphake», finte copertine Adelphi, fra cui campeggiano titoli come Cosa mi dici moai di Topo Gigio, con (falsa) prefazione di Hans Magnus Enszenberger. Salvo poi recensire/stroncare un libro davvero esistente e purtroppo non ironico come Elogio del pomodoro di Pietro Citati (biografo di Kafka, di Tolstoj e di Proust).

Ci sono poi nel libro quelle interviste agli amici a cui Labranca si sottoponeva volontariamente per poter rispondere a domande provocatorie in modo ancora più provocatorio («Parola preferita in qualsiasi lingua?». «Bonifico»).

E non potevano mancare descrizioni e memorabilia delle famose e famigerate feste di Maison Labranca in cui lui, nella sua casa di Pantigliate, riproduceva con mezzi limitati i vezzi patetici del jet set cafone: i party esclusivi nel garage di Pantigliate, i cocktail dai colori impossibili (verde squillante, o il micidiale «mirtillone»), il pic nic nella canicola del

parco Nord di Milano con le aree e i menu distinti per i ricchi e per i poveri. E a Natale, un rito immancabile: la lucida analisi esegetica del video di Last Christmas, di George Michael.

In quei momenti lo vedevamo felice.

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