di Adélaide de Clermont-Tonnerre
Cannes Presto madre per la terza volta, Laetitia Casta, moglie di Stefano Accorsi, era al Festival ieri - otto anni dopo Les âmes fortes de Raoul Ruiz, tratto da un romanzo di Jean Giono e selezionato nel 2001 - per presentare Visage (Volto) di Tsai Ming-Liang (in concorso). In quest’omaggio al cinema della Nouvelle Vague, specie a quello di François Truffaut, lei impersona un’attrice nevrotica, un’indossatrice, la sulfurea quanto leggendaria Salomé. Il triplice ruolo esige da lei sensualità e nudità.
La bella còrsa, che canta in cinese e castigliano, nulla cela della sua superba anatomia nelle danze più lascive. Ma, a parte questo succedersi di belle immagini e un cast con Fanny Ardant, Jeanne Moreau, Jean-Pierre Léaud e Mathieu Amalric (che ha un’inattesa scena d'amore omosessuale), il film lascia perplessi.
I fili dell’intreccio sono continuamente tagliati, i personaggi sono sfocati e la lentezza delle inquadrature irrita, se non giungono i benvenuti ammiccamenti umoristici a interromperle. Certe scene non hanno né capo, né coda: a cominciare da quella dove la Casta ostruisce metodicamente finestre e specchi con un nastro adesivo nero.
Seguita da uno scambio delirante - in una foresta d’alberi e specchi, dove sorge un televisore - fra Jean-Pierre Léaud e Kang-Scheng Lee, che citano nomi di registi e si scambiano un passero ferito, che finiranno per seppellire.
Passaggi talora poetici, talora buffi, ma per lo più noiosi per la maggior parte degli spettatori. Fra i giornalisti c’era chi sbadigliava da slogarsi la mandibola, chi dormiva o semplicemente usciva. Però Léaud, l’eroe dei Quattrocento colpi di Truffaut che presentò a Cannes nel 1959, s’è detto entusiasta di Tsai Ming-Liang, accarezzandone il cranio rasato per tutta la conferenza stampa: «Con lui ho ritrovato il modo di lavorare di François (Truffaut, ndr) e Jean-Luc (Godard, ndr). Tsai Ming-Liang lascia spazio all’improvvisazione».
Quest’ultimo non ha avuto scelta, visto che ha notato con umorismo che Léaud aveva accettato un solo ciak per scena e, sebbene «lui desse il meglio di sé», si sentiva che il regista aveva avuto i sudori freddi nel lavorare senza rete.
Accanto al regista, lontanissima dal personaggio bruno del film, Laetitia era pallida e bionda, trasformazione stupefacente alla quale s'è sottoposta per interpretare la polposa Brigitte Bardot nel film biografico su Serge Gainsbourg di Joell Sfar (lo stesso dove la scomparsa Lucy Gordon interpretava Jane Birkin). Ma sotto la cenere covava il fuoco: «Non sembra, ma sono una passionale! Un’emotiva, un’istintiva! Tutto tranne serena», ha confidato. È arduo immaginare l’Egeria sempre sorridente dell’Oréal angosciata e dolente, ma lei dice che è stata a lungo «esageratamente integra, in amore, in amicizia, in tutto. Un vero dolore». Per por fine ai suoi tormenti, l’attrice ha riconosciuto senza complessi di aver fatto della psicoanalisi: «Incredibile quanto questo lavoro m’abbia insegnato, sviluppando la mia curiosità. Cercando, ho scoperto gli altri». L’alterità è del resto quel che la seduce nei figli, «così differenti fra loro». Intervistata da Paris Match sulla difficoltà di combinare la carriera di attrice con la maternità, riconosce: «Evidentemente tre gravidanze rallentano una carriera. E cominciavo proprio a pensare al terzo figlio. Ma la natura è stata più veloce dei pensieri! Ho sempre voluto una grande famiglia... Certo, i bambini sono rumore, caos, imprevisti, ma questo mi piace. E i figli mi fanno crescere».
Memore d’aver perso una parte quando era incinta di Orlando, oggi di due anni, stavolta Laetitia è ricorsa a una furbizia. «L’assicurazione per le donne incinte costa il doppio quando si gira, come se la gravidanza fosse una malattia.
Le attrici devono mentire per non perdere il lavoro.
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