Nel 1965 l'Indonesia balzò agli onori della cronaca internazionale e sprofondò negli orrori di una guerra civile non dichiarata, ma mascherata da controrivoluzione. Fu un anno pericoloso nella sua allora recente, appena vent'anni, storia postcoloniale; o meglio, fu, per eccellenza, «l'anno vissuto pericolosamente» come del resto preannunciato dal suo presidente, Sukarno, in un celebre discorso pubblico, e al termine del quale nulla fu più come prima. Era cominciato tutto, appunto, con quest'ultimo, uno dei tanti leader carismatici affermatisi sulla scena del secondo dopoguerra via via che l'Occidente si apprestava ad andar via dall'Oriente oppure a trincerarvisi in un'ottica non più imperiale-mercantile, ma geopolitica. Era la cosiddetta teoria del domino, Urss e Cina fra loro rivali, ma recepite come un unico fronte nemico: se una tessera del complesso gioco diplomatico, si chiamasse Malesia, Vietnam, Cambogia, Thailandia, Laos, Birmania, Filippine veniva meno rispetto agli antichi equilibri entrati in crisi, ma ancora ben presenti, veniva giù tutta l'impalcatura e si dava il via libera al comunismo internazionale.
La via scelta da Sukarno una volta al potere era stata quella della modernizzazione architettonica in stile occidentale, ma con i soldi di Mosca, sotto la guida di un presidente nazionalista, Bapak, padre, o Bung, fratello maggiore, per il suo popolo e in specie per i diseredati che ne erano la maggioranza. Nekolim, era il neologismo inventato dalla sua propaganda, per i nuovi bianchi «imperialisti e neo coloniali», Konfrontasi il termine utilizzato per indicare che l'Indonesia non era subalterna ad alcuna forza occidentale, tanto meno agli altri Stati del Sud-est asiatico, la Malesia, in primis, fresca della sua indipendenza e desiderosa di entrare nelle Nazioni unite, ipotesi da Sukarno vista come un'offesa alla sua persona.
Esponente di punta dei cosiddetti Paesi non allineati, in quel 1965 Sukarno fu in fondo vittima di quel «teatro delle ombre», il Wayang, che oltre a essere lo spettacolo più popolare del Paese, marionette al posto degli attori, un io narrante come voce fuori campo, per una saga infinita di eroi e traditori, era stata l'essenza della sua politica, il saper sparire per poi improvvisamente tornare sulla scena, il cambiare repentino delle alleanze. Quella con i comunisti, l'ultima della serie, gli fu fatale, burattinaio retrocesso a burattino di un colpo di Stato di cui pensava di essere se non l'artefice, il beneficiario... Ironia del destino, in quel Wayang di pupari ce n'erano più di uno, gli Stati Uniti e poi il generale Suharto, gli uni e l'altro più che contrari all'idea di un «esercito del popolo» agli ordini del Partito comunista indonesiano, il terzo per grandezza dopo quello sovietico e quello cinese, e armato da Pechino.
Il golpe di sinistra aveva portato all'esecuzione bestiale di sei generali delle forze armate indonesiane: vennero portati in una regione paludosa nota per la sua Fossa dei coccodrilli, «Lubang Buaya» nella lingua locale, e lì evirati e fatti a pezzi... Una volta fallito, la scoperta di quella fossa diede al contro-golpe della destra l'occasione non solo di liquidare, una volta per tutte, il nemico politico, ma per regolare conti etnici, risentimenti anticinesi, rivalità e gelosie private, mezzo milione di morti o forse di più.
Nel giro di qualche mese, come era entrato sotto i riflettori dell'opinione pubblica internazionale, l'Indonesia ne uscì. Era appena scoppiato il conflitto indopakistano e si capiva che la teoria del domino stava spostandosi in Vietnam. A differenza di Giacarta, dove in quel 1965 l'odio antioccidentale aveva bandito dall'Indonesia i corrispondenti inglesi e americani e lasciato sul campo gli australiani, geograficamente a un tiro di scoppio, e una macedonia europea, francesi, greci, italiani, in salsa inglese quanto alla lingua parlata, il Vietnam, quello del sud, riservava all'uomo bianco d'Occidente il calore e l'accoglienza tipica di quell'idea di «orientalismo» da questi introiettata come ultimo retaggio del colonialismo d'antan: le risaie e il meticciato, i monsoni e l'oppio, l'aria condizionata dei grandi alberghi e la prostituzione...
Una decina d'anni fa, due documentari, The Art of Killing e The Look of Silence, di Joshua Oppenheimer, il primo candidato all'Oscar, il secondo premiato alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, hanno per un momento riportato nuova luce, più informata e più critica, su quella tragedia. L'appena uscito Revolusi di David van Reybrouck (Feltrinelli, trad. Chiara Beltrami Gottmer, Chiara Nardo, Franco Paris, pagg. 616, euro 25), che ha per sottotitolo «L'Indonesia e la nascita del mondo moderno» ne prosegue l'opera e si pone come ulteriore elemento di una rilettura di quel Paese e della sua politica in un'ottica storica più moderna e nella quale ha in realtà un ruolo maggiore di quello fino ad adesso considerato.
In contemporanea viene pubblicato in Italia per la prima volta quel The Year of Living Dangerously di Christopher J. Koch (Un anno vissuto pericolosamente, Mattioli 1881, trad. Sebastiano Pezzani, pagg. 352, euro 21), uscito nel 1978 e da cui nel 1982 Peter Wier trasse l'omonimo film di grandissimo successo, con Mel Gibson, Sigourny Weaver e Linda Hunt, straordinaria nell'interpretare il cameramen cino-australiano e affetto da nanismo Billy Kwan e che le valse l'Oscar come migliore attrice-attore non protagonista.
Storia d'amore, di sesso e di morte, Un anno vissuto pericolosamente mette in scena un curioso triangolo sentimentale, il corrispondente australiano, ma di nazionalità britannica, Guy Hamilton, la giovane assistente dell'addetto militare britannico, Jill Bryant e, appunto, Billy Kwan, che nel primo vede un suo doppio riuscito, alto, bello, destinato a una grande carriera, e nella seconda una donna ferita e da proteggere: un amore andato a male alle spalle, relazioni sbagliate, pettegolezzi e malignità ad ostacolarne il cammino verso la felicità. Il tutto sullo sfondo di quel 1965 indonesiano torbido e struggente, dove nessuno è ciò che appare, a cominciare dagli stringer locali che la stampa internazionale adopera come fonti di informazione e traduttori, ma che in realtà prendono ordini dal governo come dall'opposizione...
In bilico su un arco tra Asia e Australia, arcipelago di isole, dalle Molucche a Sumatra settentrionale di cui Giava è la più amata e che la schermano dalle tempeste dell'Oceano indiano e del Mar cinese settentrionale, territorio di origine vulcanica, religiosamente legato al culto indiano di Vishnu, il suo dio protettore che a volte assume le sembianze di un nano, tanto l'Indonesia appare impenetrabile per un occhio straniero frettoloso, tanto per l'infelice Billy Kwan si rivela un qualcosa in cui immedesimarsi fino a perdersi. Lì dove la stampa internazionale erige a proprio quartier generale i bar ovattati dei grandi alberghi, Kwan conosce e frequenta la città segreta dei kampong, l'altra Giacarta fatta di dedali di canne e paglia, di baracche di latta, senza fogne, senza acqua potabile, dove i senza tetto dormono lungo i canali. È quella umanità miserabile, dolente e violenta che egli vorrebbe riscattare: quello che per i suoi colleghi è solo colore locale, per lui diventa un motivo di vita, il simbolo di una possibile riscossa nazionale.
Ben costruito, scritto con uno stile coinvolgente che la traduzione di Sebastiano Pezzani rende molto bene, Un anno vissuto pericolosamente è anche lo spaccato di come l'occhio giornalistico occidentale si posi sull'altro da sé con il cinismo di una professione che ha troppa fretta per potersi permettete di pensare o di capire.
Alla fine della storia, Kwan perderà la vita, Hamilton la vista a un occhio anche se forse troverà l'amore e la riuscita nella sua professione, a Londra però, chiamato a un più alto incarico: lasciata al suo destino, l'Indonesia scivolerà di nuovo nell'ombra e nelle turbolenze ideologiche, politiche, razziali che le erano proprie. Quell'anno vissuto pericolosamente è stato solo uno dei suoi tanti, se non dei suoi troppi...
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