"L'antidoto ai conflitti sono i commerci"

Un'antologia di autori liberali mette in luce il legame fra scambi economici e buoni rapporti

"L'antidoto ai conflitti sono i commerci"

«Se le merci non attraversano le frontiere, lo faranno gli eserciti». Questa è una frase che l'economista francese Frédéric Bastiat, vissuto fra il 1801 e il 1850, non ha mai pronunciato, ma che riassume bene un certo percorso tracciato dalla tradizione liberale nell'ambito delle relazioni internazionali e che Nicola Iannello e Alberto Mingardi (il primo senior fellow e il secondo direttore generale dell'Istituto Bruno Leoni) cercano di (ri)portare alla luce in Pace e mercato (Studium edizioni, pagg. 238, euro 20). Una raccolta di testi da Montesquieu a Von Mises, passando per Smith e Spencer, Constant e Pareto, Cobden e Passy, il cui filo rosso è l'antitesi fra commercio e violenza...

Alberto Mingardi, perché questo libro?

«Il libro è una antologia di classici del pensiero liberale che vuole ricordare come, nel corso della storia, questa tradizione abbia avuto una attenzione alla politica internazionale tutt'altro che episodica. La frase attribuita a Bastiat dice che, laddove esistano confini, non nazionali ma economici, lì si stanno piantando i semi della guerra e rivela anche un volto del liberalismo, forse meno noto, ma che attraversa i secoli, da Montesquieu a Von Mises. E il libro ci ricorda anche che esiste una tradizione liberale accesa nemica del colonialismo e dell'imperialismo».

È ancora vero che il commercio e la pace siano legati?

«Ovviamente non possiamo giocare con gli anacronismi, ma quello che avviene in questi anni è, sotto molti aspetti, un dibattito in cui quelli che vorrebbero ridurre gli spazi del commercio internazionale, di fatto si preparano anche, con motivi che magari suonano alti e nobili, a scenari di guerra».

Che cosa comportano invece scambi liberi e aperti?

«Interconnessioni forti, che fanno incrementare i costi di una eventuale guerra e la rendono non certo impossibile, ma più improbabile, perché non conviene».

Un'idea che emerge è che lo scambio «ingentilisca» la società. Ma è davvero così?

«Ora, se io sono vegano, e non compro carne, non è che vado al supermercato e spero che le mie preferenze - l'acquistare lattuga, pomodori, hamburger vegetariani, eccetera - trasformino in una vegana la cassiera: lo scambio avviene con altri Paesi perché hanno ciò che noi vogliamo, e viceversa. Il benessere migliora, perché ciascuno di noi ha a disposizione più beni e servizi, ma non ci sono ambizioni politiche in questo: nessuno pensa che la nostra controparte diventi come noi, per il solo fatto di intrattenere scambi con noi. D'altra parte, così facendo incomincio a vedere nell'altro un partner, anziché un nemico e quindi sono più restio a fargli guerra, perché mi costa... Altro è dire che, siccome la globalizzazione non ha reso il resto del mondo uguale a noi, allora dovremmo abbandonarla, perché prima o poi finiremo in guerra con quelli diversi da noi».

Con quale risultato?

«Rinunciare agli scambi e al benessere ottenuti grazie alle interazioni commerciali con altri Paesi e prepararci allo scontro. Eppure questo modo di leggere la realtà è quasi onnipresente. E totalmente dissonante da quello degli autori di questa antologia».

Quindi il binomio pace e mercato è vero?

«Sì. Le economie che fanno scambi tendono a essere meno bellicose le une verso le altre. Poi le opinioni pubbliche impazziscono, le classi dirigenti perdono la testa... Ma guardiamo alla Russia: la scelta di fare la guerra è molto più costosa, ed è stata percepita come tale dalle classi dirigenti, proprio per i rapporti commerciali esistenti».

Non si fanno anche guerre per i soldi?

«Senz'altro, certe volte gli interessi economici possono catturare quelli politici. Se c'è un'industria capace di fare lobbying è quella degli armamenti».

E per le risorse?

«No, questa è una narrazione polemica della guerra: l'idea che conquistare sia uno strumento più efficace dello scambio per ottenere qualcosa si confà a società più primitive. Lo scambio è un gioco a somma positiva per entrambe le parti, la conquista no. La guerra fa male anche al vincitore, non solo agli sconfitti: drena e distrae risorse, soprattutto umane».

E in passato possiamo dire che il commercio abbia tenuto lontane le guerre?

«Molti studi mettono in luce come i periodi di pace che abbiamo conosciuto - dopo il Congresso di Vienna nell'Ottocento, con l'eccezione della guerra di Crimea, e dopo la Seconda guerra mondiale - siano anche periodi di grandi investimenti sugli scambi internazionali, per garantire commerci a più ampio raggio. E non è una coincidenza. Si pensi all'Europa».

L'unione economica?

«Abbiamo avuto settant'anni di pace. Perché? Per il mercato unico: è il pilastro di un'Europa che disinneschi le possibilità di conflitti».

Esiste una linea liberale che è anche antimilitare e anticolonialista?

«La battaglia liberale contro la spesa pubblica è innanzitutto una battaglia contro le spese per gli armamenti. E in questi autori l'idea dell'apertura commerciale è vista come la fiammella dello sviluppo sia economico, sia di società più aperte, tolleranti, rispettose del diverso che si inizia a conoscere. Nel libro c'è una selezione di testi di Passy, primo economista a vincere il Nobel, ma non per l'Economia, per la Pace: erede della tradizione di pensiero di Bastiat, fu un grande costruttore di iniziative pacifiste internazionali».

Quali sono i testi più significativi secondo lei?

«C'è quello, molto noto, di Constant, ce n'è uno molto bello di Von Mises che spiega che il programma del liberalismo è la pace... E poi è molto importante quello di Adam Smith: la scoperta di nuove rotte commerciali, sostiene, è stata la più grande rivoluzione dell'età moderna e ha prodotto benefici straordinari.

Però aggiunge anche che questi benefici, finora, sono stati appannaggio solo degli europei e che, affinché ci sia un maggiore equilibrio e i Paesi più poveri ci guardino alla pari, la cosa migliore da fare sia proseguire gli scambi commerciali. Così anche quei Paesi potranno cercare di costruire maggiore benessere».

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