Lingua morta, lingua viva. Mamma, e forse un po' nonna, dell'italiano che tutti oggi parliamo. Possiamo attribuirgli molte definizioni, ma di un aspetto possiamo essere sicuri: il latino ha ancora energia sufficiente per essere un meraviglioso e acceso motivo di dibattito.
Periodicamente ci chiediamo se debba restare nell'insegnamento scolastico o se debba sparire del tutto dai programmi di studio, ci chiediamo quanto sia giusto considerarlo ancora parte viva della nostra cultura e quanto invece dovremmo mettercelo alle spalle come un antenato il cui compito possiamo ormai ritenere esaurito. E si formano partiti. Da una parte si raccolgono i latinisti conservatori, dall'altra gli antilatinisti dell'ultramodernità. Appartengo alla fazione dei conservatori, lo dico immediatamente. Del resto, se così non fosse, un libro sul latino, un libro sulla sua forza tuttora così preziosa, nemmeno mi sarebbe venuto in mente. Dunque, sappiate che leggerete un'opera in difesa dell'utilità di questa lingua, leggerete della sua bellezza, e leggerete anche che volenti o nolenti ce lo ritroviamo ancora tutti i giorni nelle frasi che usiamo, e che non è affatto indispensabile far parte dell'élite dei colti perché lo si inserisca nei propri discorsi.
In fondo, sappiamo tutti che l'italiano esiste solo in quanto derivazione diretta del latino. Ed è affascinante scoprire i dettagli di questo processo evolutivo da una lingua all'altra, così come accorgersi delle trasformazioni che il latino letterario ha avuto via via che l'Impero romano espandeva i suoi confini. Questo ci darà una percezione della lingua molto più ampia di quella che normalmente consideriamo. Non è soltanto uno strumento per comunicare, una lingua e le sue trasformazioni sono condizionate da meccanismi numerosi, enormi, quasi sempre incontrollabili. La cultura, le religioni, la politica, l'economia. E quindi, anche in seguito a tutto questo, dal latino di Cesare e Cicerone, nel corso di alcuni secoli, ci siamo ritrovati un giorno con il volgare di Dante, e poi successivamente con l'italiano di Manzoni.
Il mio incontro personale con il latino risale alle scuole medie inferiori, e già qui potete intuire che parlo di un'epoca lontana, poiché ormai da anni lo studio del latino parte dal liceo ed è riservato soltanto a chi lo sceglie. Ritrovarselo già alle scuole medie vuol dire che è stato materia da scuola dell'obbligo, e che perciò ogni studente italiano doveva comunque farci i conti. Posso dire che il mio primo contatto con il latino sia stato precoce, a quel tempo già traducevamo il De bello Gallico di Cesare, ma purtroppo quasi altrettanto presto fui costretto a interrompere la scuola, ero rimasto orfano e per me era venuta meno la possibilità di proseguirla, così nella mia vita entrava con prepotenza la necessità di lavorare. Questo però mi consentì di mettere da parte qualche soldino e quindi dopo pochi anni riuscii a riprendere gli studi.
In questa seconda fase, il docente di gran lunga più rilevante per la mia formazione fu un anziano monsignore che mi accolse sotto la sua protezione. Mi insegnava soprattutto una materia che è ormai sparita da tempo dai programmi di studio, oggi non esiste più e molti probabilmente nemmeno ne conoscono il nome: eloquenza. Di che si trattava? Era una disciplina, e per molti versi anche un'arte, con la quale si formava la capacità di parlare con efficacia, usando l'espressione linguistica come fosse un vero strumento di lavoro. Le regole dell'eloquenza e dell'oratoria, ognuna delle figure retoriche che ne facevano parte, la facoltà di commuovere, di convincere, di smuovere coscienze servendosi di parole ben scelte, di frasi costruite per sedurre, per incantare, per indignare, per trovare il bello e l'utile che si nascondono in un linguaggio. Tutto ciò lo avevano inventato prima i greci e poi i latini, noi che studiavamo queste tecniche inevitabilmente dovevamo sviluppare una conoscenza raffinata di tali lingue, in particolare del latino.
Questo prete, monsignor Angelo Meli, mi faceva sia chiaro, dal punto di vista strettamente educativo il sedere letteralmente quadrato, nel senso che mi teneva quattro o cinque ore al giorno a studiare le sue materie in seminario. Aveva una caratteristica, si rivolgeva a me parlandomi sempre e comunque o in bergamasco o in latino, non concepiva e non utilizzava nessun'altra lingua. Potete capire che in questo modo il latino ho dovuto impararlo per forza. All'inizio naturalmente non capivo un tubo, ma l'esigenza di comunicare con lui mi costringeva ad apprendere tutto il latino che era necessario e forse anche di più. Del resto, spesso le lingue si imparano meglio e più in fretta ascoltandole, e poi provando a usarle, che non limitandosi a studiarne le regole. Quando monsignor Meli è morto, per me è stato doloroso come se per la seconda volta mi fosse morto il padre. Pensate a come possa essermi rimasta nella testa una lingua che pian piano mi ero abituato a parlare, e con la quale quotidianamente comunicavo. Intendiamoci, so bene che le regole sono importanti, ma se non continui a coltivarle, è inevitabile che prima o poi le dimentichi. A me invece era toccato il privilegio di un'esperienza che di solito uno studente non fa. Parlare direttamente il latino, trattarlo e usarlo come fosse lingua viva. Un'esperienza che fu indubbiamente faticosa, ma i cui risultati mi sono rimasti dentro, anche adesso che sono vecchio, anche adesso che di anni ne sono passati tanti.
Mi accorgo che continuo a vederlo non come la classica materia scolastica che alla fine ti rompe un po' le scatole, ma come qualcosa che ancora mi appassiona, qualcosa di cui mi piacciono profondamente il suono, la musica e la forma pura. Nel giorno in cui sostenni l'esame di maturità, mi resi conto che per me affrontare la versione di Cicerone, di Seneca o di Quintiliano era diventato quasi un gioco. Ora non voglio esagerare in presunzione, ma tradurre era ormai veramente un esercizio che presentava pochissimi ostacoli, facevo in fretta, di sicuro non avvertivo le difficoltà di chi il latino aveva potuto studiarlo e impararlo soltanto su un manuale. Nessuno di loro immaginava chi fosse monsignor Meli e in cosa consistesse il suo metodo intensivo. Un metodo senza dubbio efficace, certo; ma diciamolo, anche inesorabile. D'altra parte, è più o meno il metodo di cui anni dopo mi sono servito per imparare il napoletano. Lo capisco perfettamente, posso dire di conoscerlo, malgrado non ne abbia mai studiato le regole. Ma l'ho letto, l'ho ascoltato, il mio insegnante è stato soprattutto Eduardo, e le versioni su cui mi sono allenato sono state un po' le sue commedie e un po' le grandi canzoni classiche napoletane.
L'avrete sentito dire mille volte, e lo ripeterò qui anch'io, perché è vero in modo sacrosanto: una buona conoscenza del latino permette una migliore comprensione dell'italiano.
E c'è di più, rispettarlo e preoccuparsi di tenerlo in vita ci aiuta a preservare la ricchezza del patrimonio culturale che abbiamo alle nostre spalle, che ha superato quasi indenne tanti secoli e che è il midollo, l'essenza più autentica della nostra tradizione ideale e civile.
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