L'attivista della vera poesia rivelato dalla doppia identità

Quando non firma da critico come Marco Merlin, mescola Dante ai film di fantascienza, la pittura parietale alle stelle

L'attivista della vera poesia rivelato dalla doppia identità

Nel 2005, nella «Collezione di poesia», Einaudi pubblica Il cielo di Marte. Lo spazio dedicato alle notizie sull'autore, Andrea Temporelli, è muto. Un rettangolo bianco. Un iceberg. Credo sia un caso unico nella collana di poesia più iconica d'Italia. La mutilazione dell'autore. In realtà, del poeta, gradito a Giovanni Raboni, di cui avevano già scritto, tra gli altri, Roberto Mussapi - ne celebrava, nel 1997, una preistoria fa, «il rigore del dettato» - e Umberto Fiori - i versi del giovane talento rivelano «lo sguardo di un'intera tradizione, diciamo pure della Tradizione con la T maiuscola» - si sapeva tutto. Dietro la celata di Andrea Temporelli, nome che santifica la tragedia - di un fratellino e di una madre, entrambi morti -, opera di alto esorcismo, si nasconde Marco Merlin, cinquant'anni quest'anno, in aprile, un genio critico, dall'irruente pudore.

Di solito, Marco Merlin riassume la biografia del suo alter ego, Andrea Temporelli, in una frase ad alta tensione lirica: «figlio di un fiore e di un piccolo merlo». In realtà, in forme sfrontate, Merlin tende a confondere i piani, al punto che non si sa dove finisca Marco e cominci Andrea. Faccio un po' di pulizia. Per quel che ne so, Marco Merlin è stato il direttore della rivista Atelier, trimestrale fondato a Borgomanero nel 1996 insieme a Giuliano Ladolfi, ha firmato alcuni libri di critica letteraria spesso militanti (Poeti nel limbo, Interlinea, 2005; Nel foco che li affina, Atelier, 2009; La tentazione del metodo, Moretti & Vitali, 2016, ad esempio), ha curato una collana di poesia, «Parsifal», dove ha dato spazio ad alcuni dei poeti più importanti di questi decenni: Gabriel Del Sarto, Riccardo Ielmini, Flavio Santi, Federico Italiano, per dire. Marco Merlin abita sul lago d'Orta, ha moglie e figli, non è persona facile, è generoso: rischia di apparire gelido, i suoi giudizi sono scabri, schietti; la capacità di voler bene, credo, onnipotente. Insegna alle scuole medie e qualsiasi cosa faccia la vuole fare meglio di tutti; è uno dalle scelte perentorie e radicali: nel 2013 ha mollato la direzione di Atelier, da anni, irritato da un mondo lirico autoreferenziale, ebete, incatenato all'ovvio, non si occupa più di critica. La sua non è rassegnazione, sia chiaro, bensì presa d'atto, cioè: perpetuare la lotta in altro ambito, spirituale, semmai.

A volte, dicevo, l'identità di Marco Merlin sconfina in quella di Andrea Temporelli. Il libro Smarcamenti, affondi e fughe (Giuliano Ladolfi Editore, 2016) è firmato da Andrea Temporelli benché raccolga gli editoriali scritti, negli anni, da Marco Merlin. È un libro fondamentale, un manuale marziale contro il sistema narcisistico della letteratura italiana, contro il mondo, contro consorterie e lacchè, che predica la latitanza dai luoghi comuni, lo sfregio dei culti dell'attuale cultura, ctonia, l'amore immane: «Non c'è più distanza che permetta una dedica. Non c'è più cura. Non c'è più profondità... Sappiamo troppo, sappiamo senza sentire, sentiamo senza emozionarci. Siamo anestetizzati a tutti i dolori».

Diversamente da Marco Merlin, Andrea Temporelli è alieno alla critica, preferisce, semmai, la polemica. In Atelier risultava tra i redattori, tra quelli insonni e insani: come poeta ha esordito con una plaquette, nel 1999, intitolata pur sempre Il cielo di Marte. È riconosciuto tra i poeti più importanti di oggi, ma Temporelli fa rogo dalle didascalie, labili museruole: la sua poesia, istoriata nel cristallo, con la fionda in mano, mescola Dante ai film di fantascienza, la pittura parietale ai vagabondaggi tra le stelle della galassia di Andromeda, sussurra l'ora-e-qui, l'istante che si fa profezia, rintraccia nella sedia in salotto uno shuttle. Carattere a tratti anodino, a tratti incontrollabile, Temporelli sa ubriacarsi, è stato - secondo la sua topografia lirica, mappe endecasillabe - nella Baia di Halong e sull'Iguazú, ha amato Lisbona e la biblioteca di Praga «che mi alitò per sempre nella gola/ il fiato della storia»; benché abbia scritto del «primo uomo/ su Marte», resta un ragazzo di provincia, che predilige le lagune «specchi miei, mie lacune,/ vetrofanie di futuro passato». Secondo me, Temporelli ha una folta chioma di capelli ricci. Carattere rimbaudiano, ribelle alle norme, la vita di Andrea Temporelli è piena di illuminazioni e di fughe presso un Harar dell'anima: ha scritto un romanzo in cui scardina l'ipocrisia letteraria odierna (Tutte le voci di questo aldilà, Guaraldi, 2015; piacque a Tiziano Scarpa); dopo dieci anni - l'ultimo libro, Terramadre, è uscito per Il Ponte del Sale nel 2012 - è tornato alla poesia. Il libro, straordinario, s'intitola L'amore e tutto il resto (Interlinea, pagg. 130, euro 14) e raccoglie, dal 1996 ad oggi, la sintesi di una vita consacrata al verso. Ogni tanto l'autore ne parla, non sempre a modo, nel suo sito, piuttosto ricco: andreatemporelli.com.

La levigatezza formale, l'arcano dell'artigiano - leggete Monologo del dittatore, una sestina di vertiginosa potenza, chiusa e svelata come un fiore, che mette fuori gioco, era ora, i poeti dai buoni sentimenti, dell'ultima ora, delle scaltre improvvisazioni - non sono estroso ornamento, ma disamina del senso: la poesia di Temporelli ha il candore delle cose violente, irrecuperabili. Finalmente, un poeta che ha la fierezza della gioia, che bilancia fuga e trappola, rettitudine e mendicanza, che vive come un uomo, in piedi, frontale, pronto. Alcuni versi meritano l'espianto, poesia che si fa sapienza da insipienti, apolidi che barattano il secolo per un bacio: «per noi fedeli d'amore senz'amore/ adesso scrivere/ è pasqua in un aborto». Oppure: «Ma il solo modo di onorare i morti/ è dire addio come si dice addio/ a un amore per salvare l'amore». Soltanto un poeta dalla limpidezza omicida può scrivere «elemosina giorno su giorno/ un senso, scava nelle mani aperte,/ dona a tutti un destino. Inventa. Annuncia» (Epoca). Soltanto un poeta che ha ucciso misticamente tutto può scrivere che «noi viviamo definitivamente».

Per quel che ne so, Andrea Temporelli è un grande poeta. Quando mi ha regalato la sua copia de Il cielo di Marte, in uno dei nostri rarissimi incontri, in un luogo tra Laveno e Lovanio, tra Pallaksch e Pallanza, Temporelli mi ha firmato una dedica commovente, «A Davide, al suo vigore di uomo e di poeta: uno dei pochi che mi accompagnerà fino in fondo». La grafia immatura, senza angoli. Non so se questo «fino in fondo» sia un giardino o una guerra: accuratamente piegata, quella dedica sta nel mio portafogli, è il mio amuleto quotidiano. Chissà perché, immagino che Temporelli collezioni coltelli di legno, con il manico istoriato da bestie immaginarie, di quelli che fabbricano nello Scioà. La data di quella dedica, certo, è agghiacciante: 9 settembre 2005.

Quattro anni dopo Simone Cattaneo, poeta dal talento energumeno, di cui Merlin ha pubblicato i libri, il nostro solo amico, avrebbe scelto la morte. Ma questa è materia tenace, tonsura di stelle, troppo dolorosa per un articolo.

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