L'edizione delle sorprese Palma d'oro a Triet. Gli italiani a mani vuote

La francese vince con "Anatomie d'une Chute" e attacca il governo per la riforma delle pensioni. Delusione dopo gli applausi per Moretti e Bellocchio

L'edizione delle sorprese Palma d'oro a Triet. Gli italiani a mani vuote

Cannes. È stato l'anno degli esordienti e delle sorprese. Nessuno aveva puntato su Justine Triet e il suo Anatomie d'une chute che scava nel profondo della psicologia di una famiglia per la morte inspiegabile del padre. Emozionatissima - a stento tratteneva le lacrime - la terza donna a vincere la Palma d'Oro ha colto l'occasione per criticare il governo francese per la sua riforma delle pensioni. «Non posso accontentarmi di esprimere la mia felicità per il premio», ha detto, per poi lanciarsi in una difesa della «protesta storica», «che - ha detto - è stata scioccamente negata e repressa». «Felice di vedere la Palma d'Oro assegnata a Justine Triet - le ha risposto il ministro della Cultura Rima Abdul Malak - ma sbalordita dal suo discorso ingiusto. Questo film non avrebbe mai visto la luce se non fosse stato per il nostro modello di finanziamento del cinema».

Polemiche a parte, non raccolgono niente i tre alfieri di casa nostra Bellocchio, Moretti e Rohrwacher ma neppure i quotati Ken Loach o Wes Anderson, acclamati come Todd Haynes e altri nomi noti. Hanno vinto i giovani. Ha vinto il futuro del cinema e le idee più promettenti anche laddove a realizzarle è stata la vecchia volpe Wim Wenders.

Non ci ha creduto neanche Aki Kaurismaki che ha lasciato ai suoi due protagonisti - l'alcolista e la cassiera - il privilegio di ritirare il premio della giuria, uno dei riconoscimenti più prestigiosi del palmares, andato al sentimentale Le foglie morte. E in tema di colpi inattesi la miglior sceneggiatura è stata quella de La passione di Dodin Bouffant con Juliette Binoche e Benoit Magimel, un film che sembrava passato senza troppi entusiasmi davanti alla platea di Cannes. Il regista di origini laotiane Tran Anh Hung ha ringraziato espressamente i suoi protagonisti con un velo di emozione. Qualche perplessità va invece al grand prix assegnato - anche in questo caso a sorpresa - a In the zone of interest di Jonathan Glazer, discutibile film che ritrae Auschwitz secondo la prospettiva nazista. Ricavato dal libro di Martin Amis, scomparso nei giorni scorsi, si è forse avvantaggiato dell'effetto emotivo per la morte dello scrittore malato di cancro. Più difficile emozionarsi davanti a tragedie epocali. In questo caso il festival non risparmia un colpo allo stomaco.

Il premio per il miglior attore è andato al giapponese Koji Yakusho che ha interpretato l'addetto alle pulizie delle toilette di Tokyo in Perfect days di Wim Wenders mentre il corrispondente femminile è toccato a un altro volto nuovo, Merve Dizdar, protagonista di Les herbes seche del turco Nuri Bilge Ceylan. Un altro esordiente ritira la palma per la miglior sceneggiatura, è il giapponese Sakamoto Yuji, autore di Monster di Kore-eda Hirokazu.

Doveva essere una delle edizioni più scintillanti del Festival di Cannes e lo è stata. Almeno dal registro degli ospiti e delle presenze. Celebrità, come raramente accaduto negli anni precedenti, hanno affollato le passerelle e, in gara, il programma ha ospitato autori consolidati. Wim Wenders, Marco Bellocchio e Ken Loach tra i «monumenti», Kore-eda Hirokazu, Wes Anderson e Todd Haynes tra i nomi più noti, Karim Aïnouz e Jessica Hausner tra gli emergenti, il primo dei due con la Palma di qualche anno fa già in tasca, seppur in una sezione parallela. A loro si sono aggiunti i divi fuori concorso o semplicemente gli ospiti e qui l'elenco sarebbe lungo ma basti ricordare Johnny Depp che si è trascinato dietro un codazzo di polemiche forse inevitabili. Il trio delle meraviglie Scorsese, De Niro e Di Caprio. L'immortale fantastico e immaginifico Indiana Jones. Lo squalo Gordon Gekko-Michael Douglas. La squillo dell'ispettore Klute, Jane Fonda. Per non parlare di chi, come Jennifer Lawrence, è apparsa sul red carpet pur senza il ruolo che hanno avuto ad esempio Natalie Portman o Julianne Moore.

Da casa nostra sono arrivati Bellocchio, Nanni Moretti e Alice Rohrwacher, «cocca» del Festival ma penalizzata da un programma che l'ha inserita proprio nelle battute finali quando il pubblico, nonostante il weekend, ha cominciato a sfollare. Da sempre si sa che l'ultimo giorno è il più triste e sguarnito con l'attenzione monopolizzata dalla proclamazione dei vincitori e un'attesa destinata a finire solo in serata, quando il Palais diventa inaccessibile. Così in molti hanno anticipato la partenza.

In termini di qualità dei film in programma, l'edizione che si chiude - lanciando il guanto di sfida alla Mostra di Venezia - ha riservato la sorpresa di un ex aequo generalizzato che ha messo in difficoltà la giuria presieduta da Ruben Ostlund, vincitore un anno fa con Triangle of sadness. Raramente è accaduto di assistere ad opere di pregio tutto sommato equivalente pur nella diversità dei generi e delle storie raccontate. La favola di Asteroid city raccontata da Wes Anderson con un'impostazione teatrale in tre atti e un epilogo era esteticamente bella come i quattro oscar del cast e la pioggia di nomination di attori e attrici veramente stellari. La semplicità di vicende forse perfino troppo normali e semplici come quelle proposte da Wim Wenders e Aki Kaurismaki hanno sedotto e affascinato per la loro umiltà espositiva raccontando rispettivamente la giornata ideale di un addetto alla pulizia delle toilette di Tokyo in Perfect days e l'amore insolito tra un alcolista e una cassiera in Fallen leaves.

Gli ultimi sono largamente rappresentati nel politicizzato ma splendido di The old oak di Ken Loach dove una comunità siriana è

male accolta nel nord della Gran Bretagna del dopo Brexit. Tutti hanno un valore sembra dire l'autore britannico, in stridente attrito con il finto documentario di Wang Bing sul lavoro in Cina che fa rima con sfruttamento.

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