Affogati dalla strabordante retorica in corso sulle «nuove» liberalizzazioni, non è male riflettere su alcune concrete iniziative politiche e legislative (a partire dalla leva fiscale) che con il governo Berlusconi post 2008 hanno reso possibile il decollo di un libero (sul serio) sistema di contrattazione aziendale, favorendo con ciò un’inedita cooperazione tra proprietà e lavoratori durante una fase di dura emergenza economica. Si è difesa così parte fondamentale della forza della produzione italiana che poggia sulla qualità dei suoi operai da non disperdere nei momenti di recessione per poter ben ripartire in quelli di ripresa. E si è consentito insieme al primo gruppo industriale privato, la Fiat, di affrontare anche un’impegnativa ristrutturazione.
Se la sciagurata Emma Marcegaglia non avesse nell’agosto del 2011 colpito alle spalle il governo che aveva nei provvedimenti d’emergenza definito (il famoso articolo 8) norme per regolare elementi del rapporto di lavoro grazie a intese aziendali, saremmo ancora più avanti e certe discussioni nominalistiche tipo quelle sull’articolo 18 sarebbero quasi inutili.
L’azione di dialogo e decisione del governo con la maggioranza delle forze sociali è stata fondamentale nel merito perché ha aperto la via per superare una concezione centralistica e dirigistica delle relazioni industriali: il blocco provocato da questo tipo di visione, propria innanzitutto della maggioranza della Cgil e a lungo imposta alla politica, ha portato al disastroso risultato della perdita di valore dei salari, di cui si discute in questi giorni, che senza un legame con le dinamiche in atto nei luoghi di lavoro, diventa inevitabile.
Ma oltre che nel merito le iniziative forniscono pure una formidabile lezione di metodo: ecco un tipo di riforma che libera la società, lascia alle parti la responsabilità di governare le dinamiche relazionali possibili, non pretende di dettare scelte dall’alto (tipo lo Stato che decide di quanti taxi o quante farmacie ha bisogno la nostra società). È una politica fatta dialogando, dividendo non lo Stato dalla forze sociali ma separando tra queste ultime quelle che ostacolano il cambiamento per conservative logiche di potere da quelle disponibili al cambiamento.
All’Italia non serve dividersi tra probi e malvagi, come si è detto: tipo stanare i criminali che non emettono fattura. Ha bisogno al contrario di far entrare nello Stato tutti i cittadini: dagli idraulici ai metalmeccanici che non devono concepire più il loro imprenditore come un nemico. Le liberalizzazioni indispensabili devono dare più responsabilità a una società che ha storia millenaria, non è una carta bianca su cui il bocconiano di turno può fare le sue esercitazioni.
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