Libia, gli ambasciatori europei salvano gli svizzeri dall’assalto

È cominciata con un ultimatum e si è chiusa solo dopo ore febbrili per le diplomazie di tutta Europa l’ultima giornata di alta tensione tra Libia e Svizzera.
Teatro della nuova battaglia è stata l’ambasciata elvetica della capitale nordafricana. Già dalla notte di domenica la sede diplomatica è stata circondata da un cordone di agenti libici, il cui obiettivo era rendere perentorio l’ordine del colonnello Gheddafi: pena ritorsioni, Tripoli ha chiesto senza giri di parole la consegna dei due uomini d’affari svizzeri rifugiati nell’edificio da 19 mesi. E dopo ore concitate il colonnello ha raggiunto il suo obiettivo senza che la situazione degenerasse: Max Goeldi, condannato a 4 mesi di detenzione per violazione della legge libica sui visti, alle 13 italiane è uscito dall’ambasciata per consegnarsi alle autorità libiche. Sarà trasferito nel carcere di Ayn Zara, alla periferia di Tripoli, dove sconterà la pena. Rachid Hamdani - che solo in appello era stato assolto dalle accuse di «esercizio di attività economica illegale» - ha anche lui lasciato l’edificio scortato dalla polizia, e nella serata di ieri è partito alla volta della Tunisia. Il peggio - l’irruzione degli agenti libici nell’edificio - è stato evitato grazie all’intervento degli ambasciatori di vari Paesi, fra cui Austria, Germania, Francia, Belgio e Portogallo.
I diplomatici si sono recati domenica sera personalmente all’ambasciata svizzera di Tripoli per impedire l’assedio della sede svizzera da parte della polizia libica e per «mostrare solidarietà» agli svizzeri. Assente l’ambasciatore italiano, Francesco Paolo Trupiano, che - per sua stessa ammissione - ha preferito muoversi dietro le quinte. A tentare di trovare una soluzione aveva pensato poche ore prima il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che domenica sera ha sentito al telefono il colonnello Gheddafi - «nel quadro del lavoro di coordinamento e consultazioni continue fra loro riguardo le questioni regionali e internazionali di interesse comune», ha spiegato l’agenzia di stampa libica Jana -. Durante il colloquio - ha scritto il quotidiano online Oea, vicino a un altro figlio di Gheddafi, Seif Al Islam - il premier italiano «ha fatto sforzi persistenti con il colonnello nel tentativo di contenere la crisi». Sforzi riconosciuti anche dai ministri degli Esteri Ue riuniti ieri a Bruxelles, che hanno ringraziato Berlusconi per aver evitato «a tarda notte che vi fosse un’esasperazione della situazione» e per aver «fortemente incoraggiato Gheddafi a trovare una soluzione consensuale» sui due svizzeri. Del grazie europeo si è fatto portavoce il titolare della Farnesina Franco Frattini, secondo cui un accordo tra Berna e Tripoli sarebbe vicino.
Si chiude così l’avventura di due dei principali protagonisti del braccio di ferro che vede contrapporsi Berna e Tripoli dal 15 luglio 2008, giorno in cui Hannibal Gheddafi, figlio del colonnello, e la moglie furono fermati a Ginevra per maltrattamenti contro due domestici tunisini nel loro albergo e rilasciati due giorni dopo. Lo scontro tra i due Paesi - Gheddafi non ha mai digerito il provvedimento ai danni del figlio - quella stessa estate aveva portato all’arresto dei due uomini d’affari svizzeri, che da 19 mesi sono rifugiati nella sede diplomatica elvetica di Tripoli. Fino all’escalation della scorsa settimana: in risposta al divieto di ingresso imposto da Berna a 188 libici - tra cui lo stesso Gheddafi e la famiglia - la Libia ha sospeso la concessione dei visti d’ingresso per i cittadini dell’area Schengen.
Proprio questo resta per l’Europa il principale nodo da sciogliere. Una questione per la quale l’Italia è in prima linea, anche per i rapporti di collaborazione tra Roma e Tripoli. E ieri il ministro degli Esteri Frattini è tornato però a stigmatizzare la mossa della Svizzera di stilare un elenco di cittadini libici «non graditi» e si è detto deluso della mossa elvetica. Il ministro ha riferito di aver scritto alla collega svizzera Micheline Calmy Rey per cercare di dissuaderla e di averlo fatto «dieci giorni prima» che la lista venisse pubblicata provocando la crisi diplomatica.

«Avevo pregato Calmy Rey di non farlo, e ci sono rimasto male» ha detto il titolare della Farnesina ricordando che lo strumento della lista nera «non è stato istituito per risolvere questioni politiche o diplomatiche ma di sicurezza dei cittadini».

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