L'imputato Simenon viene condannato all'ergastolo letterario

Una non-biografia dello scrittore punteggiata da alcuni pesanti indizi. E da un patto sulfureo

L'imputato Simenon viene condannato all'ergastolo letterario

Il titolo reale è Lettera al mio giudice. Ma il titolo non detto, sottinteso, è «Lettera al mio lettore». Del resto, bisogna dirlo: l'autore non aveva una grande opinione né dei giudici, né dei lettori (o almeno della maggior parte di essi). L'amministrazione della giustizia, pensava, non è una scienza esatta: la giustizia è giudizio, ovvero valutazione, e a detenere il potere di parlare in suo nome sono uomini come tutti gli altri. E anche il lettore non resiste mai alla tentazione di ergersi a giudice, quando formula giudizi e valutazioni sui libri che legge.

In fondo, è curioso il fatto che Georges Simenon, il quale trascorse l'intera vita non soltanto a scrivere, ma proprio a scrivere di giustizia (a parte le vacanze che si prendeva con i reportage e i diari di viaggio), la pensasse in questo modo. Ma è proprio lì, nel suo fatalismo, nel suo disincanto, nel suo cinismo versati a piene mani, ingollati avidamente come bicchieri di cognac, di gin e di whisky nel raccontare crimini e misfatti, che troviamo la giusta gradazione di noir, come accade in un altro fuoriclasse del genere, Friedrich Dürrenmatt. Per inciso, dopo aver letto Il giudice e il suo boia di Dürrenmatt, datato 1952, Simenon disse: «Non so quanti anni abbia l'autore, ma se è alla sua prima prova, credo che farà strada». Ben detto.

In Lettera al mio giudice c'è un colpevole incarcerato che si rivolge appunto al suo giudice, e che alla fine, quando ha vuotato il sacco fino all'ultima particella di colpa, senza attribuire a sé stesso la pur minima attenuante generica, come estremo atto di rivolta, o di rassegnazione, o di superomismo (o forse soltanto per stanchezza) usurpa il trono del giudicante, dandosi la morte. Anche Simenon, come il suo personaggio Charles Alavoine, sapeva di essere sotto accusa, e anche lui, ormai vecchio e stanco, pensò più volte al suicidio. A tenerlo appeso alla vita, regalandogli un filo di compassione, di devozione e probabilmente di autentico amore fu la friulana Teresa Sburelin, assunta come cameriera nel '61 e, dopo la separazione dalla seconda moglie Denyse Ouimet, al suo fianco fino alla morte, avvenuta il 4 settembre dell'89.

È lei, Teresa, la presenza meno altisonante in Se il diavolo, la biografica non-biografia di Gianluca Barbera ispirata dalla vita di Simenon (Polidoro Editore, pagg. 208, euro 16). La incontriamo alla fine, negli ultimi due capitoli, e a parlarne, in una delle molte lettere inviate a Federico Fellini, è proprio lo scrittore, finalmente pacificato da quella presenza positiva e rassicurante, per non dire terapeutica.

Sì, terapeutica. Perché qui la malattia di Simenon è nel titolo, è il Diavolo, le cui corna, e la cui fatwa spuntano nel primo capitolo dal titolo «Un patto involontario». Parigi, 1952. Durante un incontro pubblico Simenon stupisce e raggela l'uditorio esclamando «Il diavolo l'ho incontrato!». E spiega. Da bambino abitava con i genitori vicino a un manicomio, il Frenocomio di Saint-Nicolas. A volte i pazienti venivano accompagnati dagli infermieri sulla spiaggia. Lui li temeva e quindi li evitava, ma un giorno uno gli si avvicinò, mostrandogli una scatoletta: «Qui dentro ci tengo chiuso il diavolo. L'ho catturato in mezzo ai sassi. Lo vuoi vedere?». L'uomo apre la scatoletta e... «Georges disse la voce... conosceva il mio nome, e già questo mi spaventò... Georges, so cosa sogni... Diventerai il più grande di tutti, diventerai un Dio in terra, ma in cambio...».

Il patto (involontario) verrà stretto in sogno la notte successiva, quando al terrorizzato Georges appare il Diavolo che gli dice: «Io ti condanno, come Mida. Ma invece dell'oro, tramuterai ogni cosa in parola. E ogni parola sarà scritta col sangue. Per ogni libro che scriverai, e ne scriverai moltissimi, qualcuno morirà». Non male, come autopromozione a posteriori, per un autore che in quel 1952 è ormai ben più che affermato. Ma siamo sicuri che si tratti soltanto di questo? Di una trovata per épater le lecteurs?

No, suggerisce Barbera delineando la psicologia del Nostro, in effetti maculata da alcuni demoni interiori (scrittura, sesso e alcol, in ordine sparso e variabile) noti a chi lo conosce. E le ultime due parole pronunciate dal Diavolo, «qualcuno morirà», si riferiscono esclusivamente al contenuto dei libri di Simenon o guardano oltre quelle innumerevoli pagine per entrare nella vita reale dello scrittore? C'è una ragazza da lui pedinata una notte e che poche ore dopo viene trovata strangolata. Ci sono quattro prostitute messicane uccise, una delle quali è stata vista con lui. C'è un investigatore che indaga su una serie di delitti il quale fa notare a Simenon quante similitudini presentino con quelli narrati da lui, e che viene assassinato con un colpo di pistola alla tempia...

Adorato da

André Gide e da Henry Miller, baciato dal successo, investito da una piacevolissima pioggia di franchi e dollari, in Se il diavolo Simenon riceve alcuni avvisi di garanzia. Prima o poi accade, a chi flirta con il crimine.

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