L'intellettuale "odiatore" nacque nel Settecento

Lo storico Robert Darnton attraverso i libri proibiti racconta la guerra culturale. Che dura ancora oggi

L'intellettuale "odiatore" nacque nel Settecento

Forse il mondo letterario ha sempre avuto una struttura gerarchica. Per lunghissimo tempo il mercato non ha potuto mantenere un gran numero di scrittori. Nel Settecento, l'epoca dei lumi in cui gli scrittori hanno iniziato ad essere davvero il centro della società, era ancora così. Anche se gli editori offrivano condizioni migliori, almeno nei Paesi culturalmente evoluti come la Francia o l'Inghilterra, rispetto ai secoli precedenti gli autori erano schiacciati da un lato dei padroni delle corporazioni degli editori e dei librai, che pagavano poco i loro manoscritti, e dall'altro dai pirati, che non li pagavano per niente. C'è voluto il torchio a vapore dell'Ottocento per consentire la nascita di un vero mercato aperto. In alcuni Paesi poi il mercato aperto non lo è mai diventato davvero, perché la sopravvivenza dello scrittore è rimasta legata alla partecipazione a determinati salotti, circoli, premi, conventicole editoriali.

Ecco le regole per sopravvivere in questo stagno ristretto della cultura le sintetizza bene lo storico della cultura Robert Darnton in I libri proibiti del Settecento che ora torna in Italia per i tipi di Luni editrice. Il saggio, un vero classico, offre varie chiavi di lettura. Tra le più interessanti c'è quella di mostrare bene come la battaglia intellettuale diventi spesso battaglia personale. Come in uno stagno piccolo, soprattutto economicamente, la grandezza delle idee lasci rapidamente spazio alla meschinità della guerra per bande. Che poi molte delle idee della Rivoluzione francese siano nate da quella guerra per bande più che dall'Illuminismo alto spiega molte cose...

Qualche esempio di come cresca una comunità di cannibali letterari, di odiatori professionisti? A Parigi poco prima della rivoluzione la cultura si divide in due in modo netto, da un lato il monde, dall'altro il ghetto. Da un lato ci sono i grandi illuministi, che sia chiaro si sono presi anche dei bei rischi. Ma sono arrivati, un po' come è successo a molti intellettuali che si sono fatti le ossa con il Sessantotto (per fare un esempio moderno). Se si parla di Diderot, D'Holbach, Duclos, Voltaire e D'Alembert è difficile capire se sia stato l'establishment a convertirsi all'Illuminismo, o l'Illuminismo a convertirsi all'establishment. Dalla fusione dei due sottoinsiemi del potere nasce il monde. I grandi philosophes costituiscono un'unità demografica coesa, una classe di ferro, che cerca degli eredi ma intanto occupa tutti i gangli fondamentali della cultura a colpi di pensioni reali e di scranni all'Accademia. Riescono rapidamente ad integrarsi nella douceur de vivre dell'Antico regime morente. E poi muoiono loro tra il 1778 e il 1785. Finisce così una stagione d'oro che potrebbe ricordare persino gli anni 80 dell'Ottocento. Arrivarono degli epigoni come Marmotel. Per usare le parole di Darnton: «Con la morte dei vecchi bolscevichi, l'Illuminismo passò nelle mani di personaggi insignificanti come Suard: perse il suo fuoco e diventò giusto una quieta diffusione della luce, una confortevole ascesa verso il progresso». Era nato il salotto buono della cultura, mancavano solo i gialletti e i romanzi ombelicali fatti passare per alta cultura. Però ci si poteva dedicare come Beaumarchais alla commediola alla moda come Le Mariage de Figaro.

Ma ai piani più bassi della letteratura una pletora di giovani scrittori iniziava una guerra per la sopravvivenza. Dove la scarsa capacità letteraria veniva sostituita dall'apparenza dell'impegno e da molto livore. Antoine Rivaroli (1753 - 1801), più noto come Rivarol, assieme a Champcenetz pubblicò un censimento sarcastico dei Voltaire e dei D'Alembert sconosciuti che si ammassavano nelle soffitte e nei marciapiedi di Parigi. Da questo ghetto letterario spuntarono con furia i nuovi rivoluzionari: Carra, Gorras, Mercier, Restif de la Bretonne...

E per farsi strada usarono ogni mezzo: era nato l'intellettuale odiatore. Citando di nuovo Darnton: «I provinciali accorrevano in massa a Parigi in cerca di gloria, di denaro e di una posizione sociale più elevata che sembrava promessa ad ogni scrittore dotato di talento... ma c'era poco spazio per questi giovanotti ambiziosi e in carriera». Nella guerra dei libri i giovani si armarono di pamphlet al veleno. Chi governava i salotti rispondeva con ostracismi e cause legali: nei salotti non si accettava nessuno che «mettesse i gomiti sul tavolo» e non fosse presentato. Per fare un esempio Mirabeau manteneva lo stile di vita di un mandarino perfino in prigione e pieno di debiti. Dirigeva una scuderia di redattori a cottimo, che lo chiamavano le comte, che dovevano produrre le opere firmate a suo nome. Invece i poveracci del ghetto della cultura si dedicavano, sia chiaro anche per sopravvivere, alle peggiori attività. Fabre d'Églantine è un caso esemplare. Uno sbandato che si considerava il successore di Molière, ma che alla fine campava facendo libelli, spiate alla polizia, di tutto. Nel frattempo scriveva testi teatrali dove misconosciuti eroi venuti dalla provincia diventavano inaspettatamente il centro dell'intellighenzia. Non andò così, almeno sino alla partenza della rivoluzione. E dunque i più si dedicarono allo spaccio di pettegolezzi e cattiverie verso qualunque personaggio pubblico di successo. Uno degli scrittori più virulenti fu Charles Théveneau de Morande. Mischiava allegramente la calunnia all'odio di classe. Con le sue chronique scandaleuse contribuì ampiamente a demolire l'immagine dei ceti dirigenti del Paese. La Rivoluzione francese deve a Morande più di qualcosa, la verità molto meno. Di certo aveva inventato un metodo che è arrivato dritto dritto sino al presente. La chiave di tutto non era più spacciare idee ma colorirle emotivamente per i membri di una cultura bassa che non sapeva di esserlo e si credeva illuminata. «Il ghetto si ribellò, abbatté il monde, e requisì le posizioni di potere e di prestigio». La rivoluzione sovvertì il mondo della cultura ma non in meglio. La parola d'ordine fu una sorta di egualitarismo feroce.

«Fu in quest'odio viscerale, e non nelle raffinate astrazioni... che l'estremismo rivoluzionario giacobino trovò la sua voce autentica». Si potrebbe quasi avere l'impressione che certe forme di ferocia woke siano vecchie di 250 anni.

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