Lo "zar" Putin? Più Salazar che Papadopoulos o Franco

Lisbona, Atene e Madrid nel '900, Mosca oggi: la storia si ripete. In modi diversi

Lo "zar" Putin? Più Salazar che Papadopoulos o Franco

In La fine del regime (Silvio Berlusconi editore, pagg. 626, euro 25, traduzione di Riccardo Mini), il politologo russo Alexander Baunov dà vita a un complicato quanto affascinante gioco degli specchi intellettuale il cui fine ultimo è provare a stabilire l'esistenza di una costante all'interno di alcune dittature che alla fine ne provoca l'implosione e/o la caduta. La scelta da lui fatta riguarda la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar e la Grecia dei colonnelli ed è una scelta motivata da quello che in realtà è il vero soggetto del libro, più o meno nascosto al tempo della sua prima uscita in patria, ben presente in questa nuova edizione aggiornata per un pubblico internazionale, vale a dire la Russia, il suo regime, il suo leader. Il rimando a quelle esperienze europee-occidentali e non, per esempio, a simili esperienze orientali in senso stretto, Est Europa, per intenderci, o in senso figurato e extraeuropeo, e sempre per intenderci, dal Perù al Brasile, dal Pakistan alla Cambogia, è legato al fatto che per Baunov il cammino ideologico-politico tracciato da Putin per il suo Paese ha più somiglianze con il retroterra nazionalistico-fideistico di quelle tre dittature prese in esame che con altre dittature sparse e sperse ai quattro angoli del mondo. In sintesi, se le dittature possono equivalersi nel loro fine ultimo, il potere, e il suo mantenimento, eliminando tutto ciò che al potere si potrebbe opporre, sono per tutto il resto, motivazioni, intendimenti, propositi, idealità, diversissime fra loro.

Della triade presa in esame dall'autore, la componente greca è la più debole e la si potrebbe mettere tranquillamente da parte, se non fosse per un unico elemento, legato non alla sua nascita, ma alla sua caduta. In sostanza, fu un putsch militare, travestito da «rivoluzione nazionale», ovvero elleniki epenastasis, contro la classe politica, tutta quanta, di destra come di sinistra, del Paese, e screditata agli occhi di quest'ultimo. Per quanto di poco antecedente ai carri armati sovietici a Praga e possibile modello per ciò che, sei anni dopo, nel 1973, Pinochet avrebbe fatto in Cile, quel regime, militare come osserva giustamente Baunov, era per l'Europa «un evidente anacronismo». Sospeso dalla Cee, espulso dal Consiglio europeo, era «un regime nato tardi e invecchiato in fretta». Le contraddizioni interne alla giunta militare, il tentativo del colonnello Papadopoulos, all'inizio primus inter pares, di allargare il suo potere, portarono nel 1973 alla sua destituzione nonché al suo arresto, in pratica un colpo di Stato dentro il colpo di Stato, e pochi mesi dopo alla fallita annessione/unificazione di Cipro, l'enosis che era sempre stato un sogno e insieme un simbolo identitario. Si trattava dell'unica e ultima carta giocabile per una giunta che all'insipienza politico-economica aveva appena aggiunto una sanguinosa repressione della protesta studentesca scaturita dall'annullamento del rinvio del servizio militare per motivi di studio. Cipro rimase repubblica indipendente e però si ritrovò spaccata in due, perché la Turchia ne occupò militarmente la parte nord e l'esercito greco non poté che restare a guardare... Nel giro di un mese i colonnelli riconsegnarono il potere ai politici civili, nella persona del leader conservatore in esilio Konstantinos Karamanlis.

Il sottinteso di Baunov è che per la Russia di Putin uscire sconfitta dalla guerra in Ucraina potrebbe rivelarsi esiziale per il suo regime, il che come ipotesi di scuola è corretta, fermo restando che la Grecia di Papadopoulos era una povera cosa e la Russia di Putin è ben altro.

Varrà la pena di osservare che anche per il Portogallo la questione militare-imperiale fu alla base della caduta del regime di Salazar, anche se quando questo cadde Salazar, uscito di scena per un ictus nel 1968, era ormai morto da quattro anni e al potere c'era il suo delfino, Marcelo Caetano. Anche qui fu comunque un golpe, la cosiddetta «rivoluzione dei garofani», a decretarne la fine, golpe legato all'impossibilità ormai di gestire le colonie d'oltremare, sempre più teatro di insurrezioni indipendentiste, all'insoddisfazione, anche economica, dei gradi intermedi, ma di carriera, dell'esercito.

Come spesso accade agli autocrati, il tempo finisce per giocare contro di loro, nel senso che da un lato li illude che non passi mai e dall'altro che non finisca mai... Salazar era arrivato al potere pacificamente, alla fine degli anni Venti, dopo un quindicennio di caos politico a cui i militari avevano imposto un alt, per poi consegnargli la repubblica chiavi in mano... Il suo era stato un autoritarismo economico-conservatore, senza troppi eccessi repressivi, pilotando il Paese in modo da tenerlo lontano dagli scogli della Seconda guerra mondiale. Ancora fino agli anni Cinquanta il Portogallo aveva progredito, senza traumi né scosse. Baunov vede molti elementi di contatto fra il regime di Salazar e quello di Putin: «Putin non ha compiuto un colpo di Stato militare, non si è appropriato del potere con la forza, non ha dovuto conquistare il Paese con le armi. Come Salazar non ha abolito, ma assoggettato le istituzioni della repubblica russa sorta dall'Urss. Con lui l'economia russa è uscita alla prolungata crisi degli anni Novanta»... Se si vuole, anche l'imperialismo salazarista può essere paragonato a quello putiniano. Per il primo il Portogallo non era l'ennesimo impero coloniale, ma una civiltà originale e distinta, lusitana e però intercontinentale. Per Putin quella russa è una civiltà a sé stante, salvifica e con una missione. Va detto che né Salazar né Putin hanno il copyright di queste idee: Lusitanismo e Russia come Terza Roma sono un portato storico-mitologico...

Prima di affrontare il tema della Spagna, va considerato ancora un elemento che Baunov mette giustamente in rilievo. Le tre dittature prese in esame hanno a che fare con una storia di democrazia che viene da lontano, conflittuale, ma ricca. Fra Otto e Novecento, parlamenti, partiti, associazioni sindacali, forme istituzionali, libertà di stampa, opinione pubblica, società civile, mode, costumi si affrontano e si confrontano, a volte fin troppo e fino alla nausea per eccesso di teorizzazioni, idealismi, alchimie istituzionali. Spesso e volentieri, e questo non vale solo per quei tre Paesi, le crisi dei sistemi democratico-parlamentari derivano dalla loro tendenza a trasformarsi in apparati di potere che non mirano alla risoluzione dei problemi, ma al proprio mantenimento. Da qui disaffezione, scarsa considerazione per chi ne fa parte, sentimento di inutilità della volontà popolare eccetera.

Detto questo, in Russia, sottolinea Baunov, in quello stesso arco di tempo non c'è nulla di simile e, senza scomodare l'autocrazia zarista e stando solo al XX secolo, «se in Spagna e in Portogallo, per non parlare della Grecia, alcuni partiti politici storici erano sopravvissuti alla dittatura con l'esilio e la clandestinità, in Russia è stato necessario creare dal nulla sia il sistema politico sia la classe politica. È stato indispensabile costruire da zero anche una classe di proprietari privati, che sponsorizzassero i partiti e fossero in genere interessati all'esistenza di un sistema giudiziario affidabile».

Se abbiamo lasciato per ultima la Spagna è proprio perché essa rappresenta l'eccezione rispetto alle altre due dittature prese in esame, l'unica che pianifichi il proprio smantellamento e l'entrata in scena della democrazia al suo posto. È un qualcosa che a lungo l'opposizione democratica spagnola ha avuto difficoltà a digerire, ma è un dato di fatto: il passaggio alla democrazia, osserva Baunov, «nella cornice giuridica della dittatura»...

Ciò è stato possibile per più motivi. Il primo è stata la scelta fatta da Franco di un referente monarchico, il giovane principe Juan Carlos, che alla sua morte sarebbe salito al trono, e quindi la forma monarchica come cornice dello Stato, qualcosa che affondava nella storia spagnola con radici molto più profonde delle effimere esperienze repubblicane, e che quindi dava una garanzia di stabilità e di continuità. Il secondo fu la straordinaria abilità politica dell'allora giovane Adolfo Suárez a guidare il difficile passaggio di consegne e poi i primi passi della restaurata democrazia parlamentare.

L'elemento più importante, tuttavia, è un altro. Al di là delle semplificazioni polemico-giornalistiche, il franchismo non fu un regime fascista, ma un regime autoritario di destra, conservatore, se si preferisce. Non c'era un'ideologia fascista nel franchismo, c'era nel falangismo, la vera novità politico-ideologica nella Spagna degli anni Trenta, di José Antonio Primo de Rivera, la cui fucilazione, a guerra civile appena iniziata, significò anche la fine del suo movimento: ne rimase lo scheletro, omaggiato in quanto tale da Franco, e come tale conservato, ma di fatto svuotato, senza più l'anima. Da militare, Franco combatté e vinse la sua guerra, ma non aveva dietro di sé un'ideologia: aveva la Spagna, la chiesa, la paura degli espropri e dell'anarchia, l'idea di tradizione, patria e famiglia, una dottrina, se si vuole, ma non un uomo nuovo, nessuna rivoluzione sociale eccetera. Il suo interesse principale era la nazione spagnola in quanto tale, il suo avversario il comunismo, perché l'aveva misurato sul campo. Da militare guidò il Paese e da militare, non da ideologo, cercò di lasciarlo il più in ordine possibile.

Ciò rende, conclude Baunov, l'esperimento spagnolo intraducibile in russo, ma rende altresì quello russo un esperimento fine a sé stesso, nel senso che, a differenza di Franco, «Putin non dà minimamente a intendere il modo in cui vede il compimento del proprio regime». Le modifiche alla costituzione, gli permettono «di restare al potere sino al 2036», ma allora avrà 84 anni. Franco morì che ne aveva 85...

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