"L'ultima estate in città" per vivere l'ultimo amore

Leo fa il giornalista a Roma, "più che una città una parte segreta di voi, una belva nascosta", vaga tra relazioni estemporanee, nel labirinto di un'umanità fiacca, sfiancata dal tedio.

Già, agosto è «il mese nero». Il sole marcisce, la luce si appiccica sui palazzi come miele, ha un odore malsano. I ricordi ubriacano, una malata rassegnazione riduce le mani a un fischio, l'Apocalisse accade sul divano, gli angeli decapitati dal ventilatore. Leo fa il giornalista a Roma, «più che una città una parte segreta di voi, una belva nascosta», vaga tra relazioni estemporanee, nel labirinto di un'umanità fiacca, sfiancata dal tedio. La donna che ama si chiama Arianna; torero del caso, Leo fa di tutto per mancarla, perché il piacere si acutizza nell'afrore della perdita. La storia de L'ultima estate in città è di per sé un romanzo nel romanzo. Edito da Garzanti nel 1973, sotto gli auspici di Natalia Ginzburg, che ne scrive come di un capolavoro che «illumina con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine», il libro ottiene un discreto successo di pubblico 17mila copie vendute, oggi un trionfo e di critica, per poi sparire dal mercato. Il suo autore, Gianfranco Calligarich, all'epoca ventiseienne, nato ad Asmara, sarebbe diventato, negli anni, un notevole sceneggiatore per la Rai. Tornato in auge nel 2010 grazie al «prestigioso piccolo editore Aragno» (André Aciman), il romanzo s'inabissa di nuovo tra gli arcani editoriali. Bompiani l'ha ripescato nel 2016, l'ha ristampato quest'anno (pagg. 190, euro 13). La tenacia vince: il romanzo è tradotto in diversi Paesi; Gallimard, in Francia, lo tratta come un oggetto di culto, «il ritratto di un uomo che cerca un senso alla vita, una storia d'amore e solitudine, di rinuncia, in una Roma magnetica». Un po' tutti hanno riconosciuto tra le quinte del libro un legame con La dolce vita; tuttavia, se bisogna giocare al cinematografo, i riferimenti eclatanti sono con La prima notte di quiete di Zurlini, che esce nel 1972. Nel romanzo di Calligarich, Leo è una specie di Lord Jim, «uno di quei passeggeri clandestini di Conrad... quei tipi che si sono macchiati di un orrendo peccato e lo espiano vagando di porto in porto»; allo stesso modo il Dominici/Alain Delon di Zurlini è «un Lord Jim casalingo». Su tutto grava la nebbia di vite inconcluse, in costante espatrio, una catastrofe posticipata, il veleno dolce del nulla. La generazione narrata da Calligarich è quella di «assediati e assedianti», nati nel sangue della Seconda guerra: il senso della sconfitta scandito da letture miliari: Malcolm Lowry, Dylan Thomas, L'ultimo dei Mohicani , dietro l'oro fasullo del «Miracolo Economico», inietta un'ebbrezza dionisiaca, ferina. La città crolla, lebbrosa, mentre è il mare a concedere a Leo una tregua: il beato spasmo dell'oblio. La scena iniziale il nonno di Leo, a Milano, moribondo, chiede di essere benedetto con l'acqua del mare cela il simbolo che verrà sciolto nel corso del libro.

Resta, analogo all'acqua, estremo miracolo nella putrefazione quotidiana, il corpo della donna, il pudore di parole impronunciabili, il sesso e il suo grandioso incendio di braccia. Adesso!, impone la donna, ed «è tutto qui», non c'è altra rivelazione oltre la canicola dell'abbandono. Si può amare solo abdicando, sempre per l'ultima volta, di spalle.

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