Il lungo viaggio di Licini verso l'origine del segno

I suoi disegni richiamano i graffiti delle grotte di Lascaux. E contengono l'interrogativo sull'origine dell'uomo

Il lungo viaggio di Licini verso l'origine del segno

In nessun artista i disegni appaiono prima pensieri che figure come in Osvaldo Licini (1894-1958). «La pittura è cosa mentale», diceva Leonardo. E, a osservare la preziosa raccolta di disegni di proprietà della Pinacoteca di Ascoli Piceno, quant'altre mai varia e rapsodica, in un arco che va dagli anni Venti agli anni Cinquanta, ogni foglio sembra agitato da una corrente che non si è placata. La mano ha seguito gli impulsi del cervello come per una scrittura automatica, non accettando alcuna regola e limite. «Cosa mentale» è sia il razionale, sia l'irrazionale. E Licini, per rivelare il suo inconscio, non ha bisogno della mescalina come Henri Michaux. Il corpus grafico di Licini è il vero equivalente del monologo interiore di Joyce, e la sua disarmante attualità non finisce di sconcertarci.

Dai «Paesaggi fantastici» al «Gentiluomo volante», ai fogli con la scritta ondivaga, agli studi per «Amalassunta»; dalle «Croci viventi» agli eroici «Angeli ribelli», alle «Mano-piedi», al «Notturno», all'irriducibile «Leopardi», Licini delira con implacabile rigore. Difficile capire dove voglia andare, cosa voglia dire. Nasce con lui un mondo di cui non conosciamo ancora i confini e che non saranno in grado di perlustrare neppure i Surrealisti, suoi didascalici coetanei nell'esibire una esaltazione onirica spesso manifestata in invenzioni artificiose. Licini non è mai didascalico, è sempre assoluto. La sua cifra onirica è il sublime. E non è consentito penetrarlo e neppure comprenderlo. Il mondo interiore è agitato da forze che non sono decifrabili: per comodità Licini le assimila ad Angeli ribelli che non accettano l'ordine di Dio, estremo tentativo di dare forma all'irrazionale. Dio è il principio di autorità, l'irrazionale superiore: inutile affrontarlo con l'irrazionale inferiore. Occorre evocare gli Angeli ribelli, i soli che hanno conosciuto la luce e il pensiero di Dio non accettandone l'ordine rivelato e imposto.

Mistico senza Dio è Licini e tale si rivela nel suo pensiero grafico. Ha bene scritto Elena Pontiggia: «L'enigma del cosmo per Licini non rimanda a Dio. L'Universo, come l'uomo, è una realtà inconoscibile». E così, avvalorando le sue radici marchigiane, Licini risale a Leopardi e sente la forza del pensiero negativo di Nietzsche: «Ma che cos'è l'Uomo? Mi rincresce, ma nemmeno Nietzsche ha saputo rispondere a questa domanda». Nel suo cercare dentro di sé, Licini arriva all'origine del segno, come Turner era arrivato all'origine del colore. E i suoi disegni ci appaiono singolarmente affini ai graffiti sull'altipiano dell'Akacus o nelle Grotte di Lascaux. Anzi, anche nei piccoli formati o nei fogli di quaderno, nelle carte strappate dalle pagine dei libri, precarie e casuali, hanno l'energia di graffiti, di incisioni sulla pietra, impronte necessarie di una mano incontrollabile che indica i confini del suo desiderio.

Il segno di Licini appare come una ferita, una lacerazione e rifugge dai significati simbolici. Come la rosa di Gertrude Stein, l'Angelo ribelle è l'Angelo ribelle è l'Angelo ribelle. Non è, e non vuol dire altro. È veramente dentro Licini, nella inquietudine dell'uomo senza fede, come l'angelo custode, nella visione cristiana, accompagna l'uomo che crede. Chi non sente di essere custodito, è dominato dall'Angelo ribelle. Certamente lo furono Leopardi e Nietzsche. Certamente lo fu Artaud e anche Jarry e anche Rimbaud e anche Lautréamont e anche Mallarmé. I maledetti di quella cultura francese che aveva appassionato Licini nel precoce viaggio parigino, quando incontra Modigliani che ne intuisce il segreto nascosto nel volto, sentendone una affinità non formale ma psicologica. Modigliani compone il suo tormento in una visione apollinea; Licini sconvolge la sua atarassia in una visione dionisiaca. Cerca in sé l'altro. D'altra parte Rimbaud gli aveva insegnato che «la vraie vie est absente». Questo gli consente di conciliare l'inconciliabile, di sentire la forma senza lasciarsi travolgere. E sono i poeti ad accompagnarlo. E non soltanto i maledetti, ma anche gli olimpici, come Apollinaire, Valéry, Éluard. Nel suo cuore si potevano incrociare lo sconvolgimento di tutti i sensi di Rimbaud e il rigore razionale di Valéry.

Lo ha ben spiegato Mario De Micheli rammentando che, fra tante suggestioni oniriche e verbali da lui trasferite in segni, era Campana il poeta che Licini amava di più, «il poeta vagabondo e irrequieto che egli sapeva a memoria e che andava recitando a Modigliani, camminando nella nebbia parigina, l'ultima volta che lo vide, il Campana così gremito di cosmici impulsi». Modigliani, provocato, gli rispondeva recitando, mentre la sua pittura aspirava a una classicità perduta, i versi travolgenti della Saison en enfer di Rimbaud. Non è un dialogo ideale perché è lo stesso Licini a testimoniarlo nel suo Ricordo di Modigliani. De Micheli osserva: «Licini si nutriva di poesia, essa era per lui una sorta di viatico delle difficoltà dell'arte e della vita».

In questa luce è più agevole intendere i disegni di Licini. Egli procede senza scuole, senza gruppi di riferimento, intercettando un mondo delle idee, che inevitabilmente lo porta verso l'arte astratta. Ma, nonostante i contatti con il Futurismo, l'amicizia con Modigliani e con Morandi, la sua anima ribelle gli impone, anche quando si dichiarerà «astrattista», di pronunciarsi «contro tutte le tendenze, i gruppi, i programmi in arte». Sempre insofferente, egli mostra più affinità con Klee che con Mondrian, muovendosi senza dogmi, senza regole, ammirando Kandinsky e Matisse. Di quest'ultimo scrive: «Matisse è uno dei pochi che ha saputo capire il volto della misteriosa bellezza, che per noi pittori è tutto quello che conta». Davanti ai disegni di Licini, così immediati, così vibranti, così misteriosi, abbiamo la sensazione di una vita in divenire verso i dipinti che ne derivano e di cui sono immediata, istintiva origine. Parti di un organismo che si sta formando, e non da quello autonomi come in Modigliani o in Klee. Le opere di Licini crescono dai disegni e, nella visione, entrano anche cifre e lettere, tentate nei disegni e poi catturate nella densa, magmatica materia del colore.

Tutto concorre alla impresa esoterica cui Licini, emulo di Campana, si è applicato come nessun altro: «Io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo riapparirò alla

superficie con la diafanità sovraessenziale e senza ombra. Solo allora potrò mostrarti le mie prede: i segni rari che non hanno nome; alfabeti e scritture enigmatiche; rappresentazioni totemiche». Nei disegni esse hanno origine.

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