Vanno allo sciopero in nome di un principio astratto, senza una sponda nell'opinione pubblica che non sia quella - invecchiata, logora, residuale - dei girotondini e delle «agende rosse». Lo sciopero del 27 febbraio dei magistrati italiani contro la separazione delle carriere si annuncia come un successo catastrofico. Un successo, perché l'adesione sarà presumibilmente compatta o quasi, visto che anche correnti moderate hanno aderito senza riserve alla parola d'ordine lanciata da Magistratura democratica: d'altronde da sabato prossimo si vota per il rinnovo del direttivo centrale dell'Anm, il parlamentino che sotto la guida della toga rossa Giuseppe Santalucia è stato il fortino del resistere a tutto, a ogni innovazione e persino a ogni proposta: e nessuna corrente vuole affrontare queste elezioni portandosi addosso il sospetto infamante dell'arrendevolezza verso il governo Meloni. I magistrati che il 27 febbraio lavoreranno rischiano di essere additati dai colleghi come dei traditori della categoria e financo della Costituzione. Successo annunciato, dunque, ma successo catastrofico. Perché lo sciopero non cambierà nulla, la riforma costituzionale è avviata e andrà fino in fondo, dopo l'arma estrema dello sciopero non c'è niente altro che la magistratura possa mettere in campo, e i giudici sanno perfettamente che se si andrà al referendum saranno sommersi dai «sì» alla separazione delle carriere. Ma successo catastrofico soprattutto perché non c'è un solo interlocutore nella società civile pronto a fare propria la battaglia di retroguardia a difesa della colleganza tra giudici e accusatori.
Tanto più massiccia sarà l'adesione allo sciopero tanto più vistoso sarà l'isolamento in cui i vertici della Anm hanno confinato la categoria che pretendono di rappresentare, arroccandosi in difesa di privilegi fuori dal tempo, negando l'evidenza delle conseguenze drammatiche di un contesto dove giudici e pm si danno del tu mentre gli avvocati difensori non vengono nemmeno ricevuti: «Mandi una pec».
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