Il Messico diviso va oggi alle urne: lotta all’ultimo voto per il presidente

Testa a testa fra il populista Lopez Obrador e il liberista Calderon

Alberto Pasolini Zanelli

da Città del Messico

Sorpresa alla vigilia del voto per 71 milioni di elettori messicani. Che non riguarda nessuno dei cinque candidati alla presidenza, bensì un ex presidente Luis Echevarria che, a 84 anni suonati, si è ritrovato in carcere poche ore prima dell’appello alle urne, accusato niente di meno che di «genocidio» per un delitto di trentotto anni fa. Proprio così, Echevarria non era ancora presidente ma solo ministro dell’Interno e fu dunque responsabile della tragedia di Tlatetolco, quando la polizia aprì il fuoco su una piazza colma di dimostranti causando un massacro. Non si era mai smesso di parlarne mentre Echevarria continuava la sua carriera, saliva alla presidenza, ne scendeva, si acconciava poco a poco a una vita di pensionato. La scelta della data è dunque per lo meno una sorpresa e ancor più difficilmente è casuale. Echevarria era fuori dalla politica, era un uomo di un’altra era, ma continuava a essere per molti un simbolo del passato, in particolare del predominio ininterrotto e monopolistico del potere da parte del suo partito, il Pri (Partido revolucionario institucional). Per settant’anni era stato in pratica il solo, regolando il resto del Paese con un po’ di bastone e molta carota. Sembrano cose di altri tempi, ma il presidente il cui mandato scade oggi, Vicente Fox, è stato il primo eletto non del Pri. Rappresentava il Pan (Partido Acción Nacional), l’opposizione di destra. E alle urne odierne la partita si gioca fra il nuovo candidato di quest’ultima, Felipe Calderón e il leader dell’opposizione di sinistra, Prd (Partido de la revolución democrática), Andrés Manuel López Obrador. Il candidato del Pri, Roberto Madrazo, veleggiava già al terzo posto, al di sotto del 20 per cento, prima della mazzata giudiziaria dell’ultima ora. Ci sono due candidati ancora più deboli, fra cui una donna, ma la lotta è ristretta a Obrador e a Calderón. Sono due giovani per il calendario della politica: 52 anni Obrador, ex sindaco di Città del Messico, 43 anni Calderón, ex ministro dell’Energia nel governo Fox. Non il suo successore designato, che era un altro, Santiago Creel, ex ministro dell’Interno, ma travolto da Calderon nelle Primarie.
Si deve all’ascesa di quest’ultimo se la partita è diventata così aperta e la forbice del distacco fra i primi così chiusa. Con Creel in lizza, e dunque giocando il tutto sul bilancio di Fox, il Pan era battuto in partenza e qualche mese fa sembrava addirittura ridotto a battersi per il secondo posto. Calderón è uscito dalla tutela, ha dato agli attivisti una sferzata di energia e, paradossalmente, si è messo in grado, proprio perché non sponsorizzato da Fox, di rivendicare il meglio dell’esperienza di quest’ultimo, a cominciare naturalmente dalle riforme economiche e dai rapporti molto migliorati con gli Stati Uniti. Ma la campagna si è giocata soprattutto sulla personalità di Obrador. Calderón è essenzialmente il candidato del «no», colui che non si è stancato di mettere in guardia i messicani dal «salto nel buio» che compirebbero gettandosi tra le braccia di un personaggio discutibile come l’ex sindaco di Città del Messico. Discusso al punto che un anno fa un tribunale lo escluse addirittura dalla competizione e spogliò dei suoi «privilegi legali». Obrador reagì convocando le masse e una folla enorme, soprattutto di diseredati, marciò verso lo Zócalo, il palazzo municipale, dove lo «venerò» come Uomo della Provvidenza. Una selva di cartelli invocava su di lui la benedizione di Dio, alcuni lo definivano tout court il Messia. La pressione indusse Fox a prevalere con una decisione politica sulla, anch’essa discutibile, iniziativa giudiziaria. Per più di un anno il cammino di Obrador fu tutto in discesa. Buona parte degli elettori del Pri affluì sotto le bandiere del Prd, saliva l’onda del nazionalismo antiamericano, appariva un esempio il venezuelano Hugo Chavez, uomo di tutt’altra origine ed espressione di una identità politica tanto diversa. Scese in campo perfino Rafael Guillén, noto come «rivoluzionario mascherato», enigmatico Zorro della giungla del Chiapas, autonominato «subcomandante» Marcos. Dodici anni dopo un abbozzo di rivoluzione, cinque anni dopo un «tour Zapata», tentativo deluso di sollevare indios e meticci, il «subcomandante» scese da cavallo e riemerse stavolta a cavallo di una motocicletta con un altro nomignolo «Delegato Zero». Rombando egli si sforzò di «sensibilizzare le masse». Amicizie pittoresche ma pericolose.

Di Marcos sembrano essersi dimenticati di nuovo tutti e il paragone con Chavez è diventato l’arma numero uno per la imprevista riscossa di Obrador negli ultimi mesi, che lo ha portato nei sondaggi praticamente alla pari con l’antagonista. Il suo slogan è «il Messico non ha bisogno di un Chavez».

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