
Il primo romanzo di Fabio Genovesi si intitolava Versilia Rock City (Transeuropa 2008, poi Mondadori 2012), quello appena uscito in libreria Mie magnifiche maestre (Mondadori, pagg. 232, euro 19): in mezzo, fra le corse del Giro d'Italia e le vicende di un mozzo della Santa Maria, c'è sempre lei, Forte dei Marmi, dove Genovesi è nato e tuttora vive. Protagonista, insieme ai suoi abitanti e alle loro storie, proprio come nel nuovo romanzo, dedicato da Genovesi alle sue «donne di famiglia», che vengono a trovarlo in sogno a ridosso dei cinquant'anni...
Fabio Genovesi, nel romanzo il confine fra sogno e realtà è volutamente labile, quindi chiariamo: i cinquant'anni li ha compiuti davvero?
«Sì, l'anno scorso».
E poco prima ha iniziato a ricevere delle «visite»?
«Era un periodo in cui ero chiuso in casa a scrivere, in più in Versilia in inverno non c'è nessuno e, all'improvviso, mi sono reso conto che sarei diventato cinquantenne. E, a una settimana dal compleanno, ho avuto questi sogni, in cui ogni notte una delle mie nonne o zie, o amiche di famiglia, venivano a raccontarmi di loro e delle esperienze che avevo vissuto con loro quando ero bambino».
Quali esperienze?
«Lezioni di vita, ma questo lo capisco solo oggi, perché allora ascoltavo le lezioni, più brusche e roboanti, degli uomini; perché dovevo diventare uomo, appunto. Ma queste lezioni delle mie nonne e delle mie zie sono state ancora più importanti, e l'ho compreso solo crescendo».
Queste sue maestre sono davvero magnifiche.
«Sì. Quando sei un pittore, la fortuna è avere una tavolozza con molti colori; per scrivere, avere una tavolozza umana. Ecco, io sono cresciuto in una famiglia piena di persone da romanzo».
Che famiglia era?
«Una famiglia popolare, di uomini marinai o legati al mare, e di donne particolari, che non hanno potuto viaggiare o studiare ma erano molto emancipate e libere. E che non mi hanno inculcato obblighi o cose che dovevo fare, bensì cose che potevo fare: si sono preoccupate del fatto che fossi una persona felice, più che una persona rispettabile».
Queste sue donne, la trisavola Isolina, la temibile bisnonna Archilda, la zia Gilda, fanno anche molto ridere.
«Sono state donne con vite intense e anche drammatiche, ma con quell'indole per cui prendi tutto come una cosa non seria, perfino le tragedie, perché la vita è un gioco. Però questo gioco è l'unica cosa che abbiamo, e allora dobbiamo giocare al massimo. E loro lo hanno fatto».
Sogni e realtà hanno pari importanza?
«Io credo ai sogni, da sempre. Come gli antichi. Per me i sogni sono un dono del cielo: una occasione per essere liberi nel tempo e nello spazio, per incontrare le persone che non ci sono più, per visitare luoghi lontani e provare esperienze. Oggi ci siamo immiseriti e li consideriamo solo un modo per studiare l'inconscio».
Non le piace?
«Abbiamo l'ossessione di capire noi stessi. Ma siamo poco. Ogni notte ci si spalancano delle praterie infinite di libertà e noi stiamo lì piantati a studiarci le dita dei piedi. La nostra è una società misera, con orizzonti miseri, nella quale non sogniamo più e non diamo importanza ai sogni».
Scrive che viviamo due vite.
«Una è quella che conduciamo perché pensiamo di doverlo fare: quella diurna, del lavoro e delle relazioni famigliari. Di notte invece, nel silenzio, emergono le vere passioni, le ansie, i sogni. Siamo molto bravi ad accontentarci, ed è terribile, perché è il modo migliore per non essere contenti».
E di notte?
«Di notte lo vediamo, che ci facciamo bastare quello che non ci basta, ma poi viene il giorno, ci vestiamo e ci raccontiamo l'ennesima bugia».
Questo suo approccio è legato al vivere in Versilia?
«Sì, la Versilia è una terra di confine, di vite e persone diverse dal solito: è difficile creare una società precisa dove c'è il mare, perché navigare rende precari. Poi ci sono l'alta e la bassa stagione: tre mesi frenetici e il deserto per il resto dell'anno. È qualcosa che spaesa, ti fa perdere il centro. Vivi una vita imprevedibile. E davanti a te c'è il mare, infinito, antico e immortale».
È un amante della pesca?
«Sono più un osservatore. Amo il mondo sottomarino, forse perché è un simbolo della vita: di solito guardiamo solo la superficie della realtà, così come quella del mare, ma sotto ci sono mondi e mondi che non conosciamo né di cui sospettiamo l'esistenza. E così è per le persone che incontriamo, dentro le quali c'è una profondità imprevedibile».
È labile anche il confine fra vero e falso?
«La bellezza è poter raccontare le storie, le nostre storie, e non importa che siano proprio verissime. La Storia è spesso una bugia, è quella raccontata dal punto di vista degli zar e dei re, mentre noi siamo figli della storia, minima, delle singole persone; una storia che la Storia non racconta, perché non ne ha la sensibilità».
Che cosa dice questa storia?
«Oggi molti libri raccontano di donne aviatrici, o esploratrici, come a dire: ce la puoi fare, non come quella sfigata di tua mamma casalinga. È un messaggio brutto. Molte donne non hanno avuto certe possibilità ma hanno compiuto grandi cose sottotraccia, come reggere una famiglia o un paese. È il caso di Forte dei Marmi».
Come è successo?
«Tutti gli stabilimenti balneari sono stati costruiti e condotti da donne, all'inizio. Perché la sabbia era considerata priva di valore e quindi si dava in eredità alle figlie femmine, mentre ai maschi si lasciavano le terre in collina. E poi su quegli stabilimenti si è costruita la fortuna del paese».
Quanto conta il silenzio?
«Sono un appassionato del silenzio. Ci dice tante cose e spesso non facciamo silenzio nella nostra testa proprio per paura di ascoltarle. Oggi, nel rumore dei social, se stai zitto non esisti. Il silenzio per me è una vera rivoluzione».
Che cosa le hanno insegnato le sue magnifiche maestre?
«Tante cose, ma quella che le riassume tutte è il rovesciamento della favola della formica e della cicala. Da sempre ci dicono: devi essere come la formica, il canto della cicala è una cosa sciocca. Invece è una cosa serissima. Le cicale aspettano fino a 17 anni sottoterra prima di uscire, insieme, e cantare il loro canto antico come il mondo per tutta l'estate, e poi alla fine morire: vivono, e vivono bene, il loro tempo e non chiedono nulla alla formica».
E la formica?
«Si è rovinata la vita.
Ecco, l'insegnamento è che il canto della cicale è una parte fondamentale della vita, da non lasciare mai da parte o dimenticare per quello che devi fare. E certamente il nostro dovere va fatto ma, se perdiamo l'estate, non ne vale la pena».
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